mercoledì 25 dicembre 2013

Cosa significa Auguri?

In questi giorni è forse la parola che usiamo di più. Conclude ogni incontro, ogni saluto e ogni messaggio mail; la vediamo scritta sulle vetrine dei negozi, la sentiamo nelle canzoncine degli affollati centri commerciali e avrà la sua apoteosi nel primo minuto dopo la mezzanotte del 31 dicembre.

"Auguri", questa è la parola, ovviamente. Ma che significa? Io me lo sono chiesto, perché in quanto filosofo non praticante amo giocare con le cose che sembrano ovvie. Non ho intenzione di tediarvi il giorno di Natale con le etimologie, ma desideravo regalarvi uno dei significati che più mi hanno colpito, tra quelli legati alla radice indoeuropea di questo termine. Ve lo trascrivo così come l'ho letto:
“Avere la forza di avviare dei processi”.

Ci sarebbe molto altro da dire, perché il significato ha anche a che fare con il mondo misterico e sacerdotale, ma quello che mi sta a cuore oggi è collegare la parola AUGURI alla parola INIZIARE. 

Dicendo "Auguri" desideriamo quindi evocare -in noi e nelle persone a cui lo diciamo- quel sacro fuoco che ci ispira e ci permette di iniziare le cose, di ripartire e di creare il nuovo. Ogni nuovo anno. Ogni nuovo giorno.

Allora… Auguri!

giovedì 12 dicembre 2013

Intorno al Bello - il duro lavoro del filosofo.

(Note a margine de “L’apparire del bello” di U. CURI)


La filosofia non si insegna, si fa. Per motivi a me ignoti (ma sembra per colpa di Aristotele, che onestamente non mi è mai stato simpatico) ad un certo momento la filosofia è diventata una “disciplina scolastica”.

In realtà fare filosofia significa “lavorare con il pensiero” (che non vuol dire farsi pippe mentali -ndr): ed è questo che abbiamo tentato di fare martedì 10 dicembre scorso, sotto la regia del Guanxinet, presentando il libro "L'apparire del Bello" di Umberto Curi. 
All’incontro era presente anche Giovanni Gurisatti che insegna Filosofia Estetica all’Università di Padova. Io, filosofo non praticante, ero in mezzo a far scena.

Prendere un concetto, lavorarci “intorno” con lo sguardo della ragione e con lo slancio del cuore, scavare nell’etimo e nelle sfumature dei significati, analizzarne l’evoluzione partendo dal suo apparire nella storia del pensiero: questo (e non solo questo, ovviamente) è fare filosofia. Se poi questo scavo raggiunge gli ultimi 4 secoli prima di Cristo, dalle parti dell’antica Grecia, si hanno sempre delle meravigliose sorprese: è così che termini ovvii e scontati, che usiamo e sentiamo usare fin da bambini (come è appunto il caso della “bellezza” e del “bello”), s-velano angolature di significato ormai dimenticate ma non per questo meno ri-velatrici (notare il gioco "ti vedo e non ti vedo", tipico dei filosofi zuzzurelloni).

E’ proprio sull’onda di quella serata, dove nessuno dei contendenti si è risparmiato e dove il livello del “pòlemos” (della “battaglia dialettica”, secondo la definizione amata da Curi) era molto alto, mi è venuta l’idea di condividere alcune suggestioni e alcuni “risultati” di quel gran lavoro intorno al “bello”.
Non voglio fare un trattato, nè forse ho il tempo e la capacità di cucire il  tutto in un gran discorso (che poi non servirebbe: basta leggere il libro no?!), per cui mi limiterò ad offrirvi un vassoio con tante “chicche”. Poi ognuno spizzicherà quel che vuole, tanto è tutto gratis.

Allarghiamo i [nostri] confini del Bello
Il concetto antico di “bello” è molto più ampio di quello a cui noi siamo abituati a pensare.
Soprattutto è impossibile pensarlo come una serie di “attributi” che rendono “bello” un oggetto.
Negli scritti storici di Tucidide o nella grande tragedia greca, prima ancora che nel pensiero dei filosofi, il termine “bello” include infatti sempre e necessariamente anche il "buono" e il “vero”. Bello per gli antichi è anche il "ben fatto", il "ben connesso" (quindi, è “bello” per definizione ogni network! - ndr) e infine “bello” è massimamente ciò che esprime “pienezza” e quindi “senso”: e, così intesa la bellezza, può essere bella anche la morte come compimento ultimo di una vita ben spesa.

Il Bello è Oltre 
“Bello” è soprattutto ciò che è capace di rimandare oltre a sé, che “chiama” verso qualcosa di più grande e difficile da afferrare. Un oggetto è bello se non fa fermare lo sguardo su di sé, se non soddisfa del tutto -pena la sazietà- ma alimenta l'appetito e spinge alla ricerca di una dimensione che lo supera per autenticità e pienezza.
La bellezza (e qui Platone trionfa) non è quindi uno “stato” ma un “percorso”, un “processo” che ci fa partire dal bagliore delle “cose” belle per arrivare (forse mai) all’idea di bellezza, invisibile agli occhi ma accessibile al pensiero (o al cuore, come direbbe il Piccolo Principe di Antonine de Saint-Exupéry - ndr).

L’attimo fuggente della Bellezza
“Se dirò all’attimo: sei così bello, fermati!...” (dal Faust di J.W. Goethe)
Mi ha molto affascinato anche il legame -chiarissimo per gli antichi e ben descritto da Curi- del "bello" con il Kairòs (letteralmente, “momento opportuno”, poeticamente “attimo fuggente”): la bellezza si illumina solo nel momento propizio, non è una condizione stabile. Appare come un bagliore e poi si eclissa. Riluce, ci “chiama” come una sirena e poi si immerge negli abissi.
Ciò che è veramente bello non si può fissare, nè possedere. E’ qualcosa che per essere colto richiede la giusta disposizione dell’animo e la giusta circostanza di tempo e spazio. Non solo, è qualcosa di mutevole, che evolve in modo imprevedibile e si manifesta all’improvviso (bravissimo Gurisatti ad evocare qui l’attimo immenso” di Nietzsche).

Il Tao e la bellezza
Bella l’armonia frutto del contrasto tra opposti (Eraclito, citato a senso: cosa che posso permettermi in quanto filosofo non praticante).
In questo è sorprendente il parallelo con la concezione taoista della realtà come “unione degli opposti che si compenetrano”. Avete presente il simbolo del Tao, no? Qualcuna di voi ce l’avrà pure tatuato da qualche parte... Beh, a costo di sembrare “scolastico” può essere utile richiamare alcune caratteristiche di questa straordinaria rappresentazione della realtà:  
  • il tutto è dato dalla sintesi di due dimensioni opposte (il bianco/yang e il nero/ying)
  • il confine tra le due dimensioni non è una retta ma una curva, che fa compenetrare una dimensione nell’altra e viceversa
  • dentro da ognuna delle dimensioni, è contenuta una parte della dimensione opposta.
Un bel casino insomma, ma ci serve per dire che questo stesso drammatico e vitale contrasto è contenuto anche nel concetto classico di bellezza. Il fatto che il bello -colto con i sensi- rimandi “oltre a sè”, verso qualcosa di impossibile da cogliere con i sensi e quindi di misterioso, giustifica l’esperienza -incredibile e drammatica- che ognuno di noi prova di fronte alle vette dell’arte o alle meraviglie della natura: un misto di meraviglia e sgomento, che potrebbe bloccarci in un’estasi paralizzante o nella vertigine della Sindrome di Stendhal.
Per dirla con Gurisatti: il bello “eccede” a se stesso. Altrimenti non è vera bellezza.


E dopo tutti questi discorsi, abbiamo le idee più chiare? Spero di no.
Spero che in chi ha avuto la pazienza di leggermi fino in fondo siano nate altre mille domande e curiosità, o che magari una sottile inquietudine si sia infiltrata dentro agli schematismi poveri nei quali per necessità “economica” imprigioniamo i concetti e le nostre idee.

Questo è il lavoro del filosofo: una sorta di fisioterapista della mente, che cerca come può di impedire alle articolazioni del pensiero di irrigidirsi e di bloccarne il movimento.


martedì 1 ottobre 2013

Tutti pazzi per i Giardini di Adone



Il mito di Adone è presente con nomi diversi in molte culture del Mediterraneo. Nella versione ellenica, a noi più nota, il bellissimo Adone -di cui omettiamo la complicata genealogia- viene conteso tra Afrodite (dea della bellezza, dell’amore e della vitalità) e Persèfone (divinità del regno di Ade, simbolo di tenebra e morte), che alla fine se lo tengono a part-time stagionale tutte e due. Da questa doppia e ambigua appartenenza nascono ovviamente una serie di intricate vicende e tutto finisce a schifìo.


Nonostante l’esistenza travagliata e finita tutt’altro che bene, la bellezza di Adone, il suo essere nato da un albero di mirra (che prima era una donna ma si sa come andavano le cose nell’antica Grecia) e l’essere stato spupazzato da un gran pezzo di Dea come Afrodite, hanno finito per dare vita al rito dei Giardini di Adone. Nel mese di maggio (o di luglio, a seconda delle città) questi fresconi degli antichi greci prendevano delle conchiglie, le riempivano di terra e vi seminavano cereali e altre erbette da far crescere in gran fretta ed esporre a breve vita durante le Adonìe. Questi giardinetti improvvisati erano perfetto simbolo dell’entusiasmo primaverile, della gioia per la rinascita e della vitalità, ma al tempo stesso -seccando al sole in poco tempo- rappresentavano anche l’effimera consistenza di tutto ciò che è destinato a crescere in fretta e altrettanto in fretta ad appassire e morire.

Ora pensate a quante cose nella nostra vita somigliano a Giardini di Adone. Ad un livello superficiale e quasi banale, basta pensare a quante cose facciamo solo perché ci danno l’illusione di una gratificazione immediata, ma senza costrutto nè speranza. Lo chiamiamo sportivamente “cazzeggiare”, oppure “guardare la tv” o -per i più social- “curiosare in internet”; ma il risultato non cambia: è un fiorire di giardinetti celeste puffo che avvizziscono già a sera, dandoci la sensazione di aver vissuto per nulla anche questa ennesima giornata.

Ad un livello un po’ più profondo, i Giardini di Adone sono anche il simbolo di tutto ciò che iniziamo con grande baldanza ed entusiasmo -presi dall’ultima moda che si chiama Zumba ,che ha sostituito il Pilates, che ha rimpiazzato l’Aerobica ma somiglia al Latino-Americano solo che ci si diverte di più [questa era per il pubblico femminile]- per poi abbandonarlo non appena si presenta l’ulteriore trend o, più semplicemente, quando arriva la pioggia e il freddo e ad uscire la sera chi ci pensa più. Bravi anche noi uomini ad iniziare con grande piglio un’attività sportiva o un corso di inglese, cominciando già dal primo incontro ad elaborare la lista delle giustificazioni per salvare la faccia alle prime assenze [questa è per me]. Beh, intanto mi iscrivo, prendo la conchiglia e il terriccio, ci metto i semini e poi si vedrà.

Ma Adone non si ferma qui. Il suo fascino è ben più profondo, la sua avvenenza è tale da far uscire di testa una come Afrodite, vi ricordo, figuriamoci che effetto può fare su di noi! Ecco che il vero trionfo di Adone è il culto dell’apparenza, la scelta di vivere in superficie senza mai impegnarci in qualcosa che vada oltre l’orizzonte del risultato a breve e del ritorno immediato, il disimpegno sistematico mascherato da “vivere il presente” e portato avanti postando sui social le location trendy dei nostri spritz. Niente impegni duraturi, nessun investimento sulla sostanza frutto di impegno quotidiano: meglio uno spensierato uovo oggi, meglio capitalizzare subito il guadagno, meglio puntare sui gratta e vinci. Meglio affidarsi alla fortuna, per poi lamentarsi del fatto che è bendata.

Invece la natura ci dice che le cose non funzionano così. La festa di Adone era festa di vita e di morte insieme: viva la primavera! Muoia la primavera e lasci il posto all’estate! Muoia l’estate e lasci il posto all’autunno. Muoia l’autunno e lasci il posto all’inverno. Il fiore di primavera si trasforma in frutto. Se il frutto non cade in terra, il seme non attecchisce. Se il seme non muore al suo essere seme, non diventa albero e poi fiore e poi di nuovo frutto (questa non è originale, lo so). Tutto quello che ha valore richiede tempo e pazienza: ci vuole un giorno per far crescere un fungo, qualche giorno per far nascere l’erbetta ma ci vogliono cento anni per un ulivo forte. Ma noi no: l’ulivo nel nostro giardino lo piantiamo già cresciuto e con le fronde sagomate, mica possiamo rischiare che ne godano solo i nostri nipoti! La fatica che la facciano gli altri.

E’ sempre una questione di scelta, tra il Sì e il No, tra l’impegno e l’ignavia, tra la vita e il lasciarsi piano piano andare. Eppure, l’unica speranza di trasformare la nostra esistenza da luogo deserto e battuto dal vento in una valle rigogliosa é quella che nasce dal piantare alberi ogni giorno, contro il buon senso e contro la derisione altrui. Come l’uomo saggio del meraviglioso racconto di Jean Giono.

lunedì 30 settembre 2013

Giù per il tubo

Un tubo è costituito fondamentalmente da un corpo internamente cavo, di varia forma e lunghezza, e da due aperture: una in entrata, che chiameremo "A" e una in uscita, che con grande fantasia chiameremo "B". 
Se il tubo è composto da materiale rigido, vi può passare una certa quantità di materiale e non di più: quando il materiale in entrata ha saturato la portata del condotto, non entra più niente finché qualcosa non esce dall'altra apertura.
Se invece le pareti del tubo sono di materiale elastico, può succedere che entri più materiale di quello che riesce ad uscire. In tal caso succede quello che abbiamo visto in innumerevoli versioni nelle "comiche" cinematografiche o nei cartoni animati: c'è una canna per annaffiare il giardino attaccata al rubinetto, l'acqua entra in continuazione ma qualcosa ne impedisce la fuoriuscita. A quel punto il tubo inizia a gonfiarsi e alla fine da qualche parte scoppia, allagando chiunque si trovi nei paraggi, o si comporta come un serpente impazzito.
Ovviamente può anche succedere che il tubo sia chiuso in entrata, e allora resta vuoto, inerme e... inutile. Sì perché il tubo è fatto per essere attraversato da qualcosa che scorre, rotola o fluisce: è questa la sua funzione. Permettere e facilitare il passaggio, conducendo qualcosa da una parte all'altra. Per questo esistono i tubi.

Ora immaginiamo per un momento che il tubo sia il contenitore della nostra quotidiana esistenza. Avremo una parte da cui entrano gli input (relazioni, cose da fare, situazioni, problemi, opportunità) e una parte da cui escono degli output (risultati ed effetti). In mezzo ci sta tutto il nostro lavoro fisico e psicologico, condìto di emozioni, ragionamenti e sentimenti.

E' ovvio che se il tubo della nostra esistenza si blocca in entrata è un grande problema: se mancano le sfide, le novità, le cose nuove da fare... piano piano la vita perde dinamismo, si avvizzisce e alla fine potrebbe davvero inaridirsi o svuotarsi. Tutto quello che entra dall'apertura "A" genera cambiamento, adattamento ed evoluzione. Magari non sempre quello che arriva è buono. Magari qualche volta ci fa paura. Ecco perché piano piano iniziamo a mettere dei filtri che ci proteggono ma inevitabilmente riducono il flusso in entrata... Se poi entra qualcosa di davvero brutto e doloroso, siamo addirittura tentati di chiudere quell'apertura ergendovi un muro fatto di giudizi, difese, giustificazioni e rifiuto. Però prima o poi lo sentiamo l'odore di chiuso e ci viene a mancare il respiro: allora senza indugiare torniamo ad aprire porte e finestre, a far entrare aria fresca e nuova.

Quando invece l'apertura "A" funziona, dicevamo, le cose della vita entrano e popolano il tubo della nostra esistenza, modificandone continuamente lo stato. Entrano, riempiono tutto lo spazio, premono per entrare ancora ma... stavolta è l'apertura "B" ad avere problemi: ce ne accorgiamo perché non arrivano gli output, i risultati, quella sana chiusura degli item aperti che ci permette di non doverci più lavorare su. A seconda dell'elasticità delle pareti della nostra esistenza, ad un certo punto il tubo comincia ad allargarsi e a gonfiarsi riuscendo a contenere molto più di quello che conteneva prima. E' sorprendente quante cose riesce a trattenere e quanto riesce ad espandersi, ma il flusso non scorre e poco o nulla fuoriesce dal tubo. Il punto è che siamo così impegnati a lavorare tutta questa massa di esperienze che non ci accorgiamo subito del blocco in uscita; la nostra vita è intensa e piena di problemi e opportunità; noi siamo sempre attivi e ce la mettiamo tutta; al resto ci penseremo più avanti (anche se, ad essere onesti, cominciamo a sentirci non troppo bene).
Ma se a bloccare l'apertura "A" era la paura o la difesa, che cosa finisce per ostruire l'apertura "B"? Provo a rispondere: l'attaccamento, l'orgoglio, la volontà di far andare le cose come vogliamo noi, la pretesa di essere indipendenti, la mancanza di fiducia nella natura delle cose. Ecco cosa blocca l'uscita: non volendo mollare mai teniamo tutto dentro, volendo dirigere tutto non permettiamo a nulla di scorrere liberamente e alla fine -se non cambiamo approccio- scoppiamo. Letteralmente. La rabbia e la frustrazione aumentano ancora di più la pressione interna e prima o poi, da qualche parte, un punto del tubo cederà e farà uscire cose che non dovrebbero uscire. Non ora. Non così.

Che fare quindi? Semplice. Se la vita è un tubo basta lasciar andare tutto alla sua velocità, evitando di trattenere, far sedimentare ed incrostare; significa non elaborare troppo, accettare quello che arriva per quello che è e da esso lasciarsi attraversare usando l'elasticità delle pareti per spingerlo verso l'uscita. 

Ora sapete perché si dice "non ci ho capito un tubo".








sabato 7 settembre 2013

Povero Kant.

Povero Immanuel. Ha passato una vita a scandagliare i fondali dell'umana capacità di conoscere, a contare i nodi della cordicella che scende nei fondali limpidi della Ragion Pura e a tentare di stabilire un difficile limite alla Ragion Pratica. Non si è arreso neppure di fronte al Giudizio estetico, ovvero a quella che appare a noi filosofi non-praticanti come la più vaporosa delle forme di conoscenza. Eppure anche il buon Immanuel, metodico al punto che si racconta che i suoi compaesani di Konigsberg regolassero l'orologio al suo comparire nella quotidiana passeggiata, apriva cuore e braccia all'ammirazione di fronte alle due cose più immense e certe: "il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me".

Insomma, chi tra voi ha visto il cielo notturno in una zona desertica sa cosa si intende tecnicamente con l'espressione "uno smerdaro di stelle". Non è che qualcuno te lo deve spiegare: fermi il passo (ché se vedi le stelle è perché quaggiù è buio pesto e rischi di azzopparti), alzi la testa e guardi il firmamento con la bocca semiaperta nella tipica espressione della meraviglia. Il buon Immanuel, con la sua proverbiale semplicità, diceva che questa esperienza "estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile". Vabbè, ci siamo capiti: nella vita hai mille casini e poche certezze. Una di queste è il cielo stellato.

Questa meravigliosa illusione, cioè l'interiore sicurezza che quello che vedi nel cielo è quello che veramente è (non come quando guardi gli altri esseri umani e non ne capisci una mazza), dura fintanto che non partecipi ad una serata astronomica. 

Io non so quale sia la Mission dei ricercatori di astronomia, ma credo sia molto vicina a quella di chi si sente in dovere di dirti troppo presto che Babbo Natale non esiste. Una settimana fa ho partecipato con le mie due figlie ad un evento divulgativo presso l'Osservatorio Astronomico dell'Università di Padova ad Asiago. Vi risparmio le dettagliate spiegazioni tecniche su come funziona il controllo remoto dei telescopi, mi interessa parlarvi di alcune cose ovvie dal punto di vista di chi se ne intende di questa disciplina, ma piene di conseguenze dal punto di vista del pensiero di noi bipedi terrestri.

La prima cosa che capisci ascoltando un astronomo è che quello che vedi osservando il cielo (ad occhi nudi o con un potente telescopio) non è quello che in questo esatto momento è o accade. Mi spiego meglio, senza entrare nei meandri della relatività dei concetti di spazio e tempo: tu sei lì bello bello con la testa alta, guardi le stelle e dici: "che bel cielo c'è stasera". Stasera 'na mazza! Quello che vedi, bel bambino, è lo stato di quelle stelle al momento in cui la luce è partita per arrivare fino a te. Quindi quello che tu vedi in questo istante e in modo contemporaneo è quello che è successo 60 anni fa nella stella distante 60 anni luce, 136 anni fa in quella distante 136 anni luce, in quella che pare tanto vicina perché è grande e luminosa invece 468 anni fa. In questo esatto momento una di quelle stelle potrebbe essersi trasformata in una supernova o in una nana rossa, ma probabilmente se ne accorgeranno solo i tuoi posteri.


Tuttavia le certezze ereditate dal povero Kant  che sicuramente è là vicino al buon Dio che si batte la fronte e continua a ripetersi "maremma bu'aiola lo dicevo io che c'avevo lo scandaglio troppo piccolo", si infrangono definitivamente quando il giovane ricercatore ti confessa che quello che vediamo e di cui pensiamo di conoscere qualcosina è solo il 4% dell'intero Universo e che di fenomeni come l'antimateria e l'energia oscura conosciamo poco o nulla e... (a questo punto mi sono addormentato e non so bene cosa abbia detto ancora).

Insomma, non ci si può fidare neanche del cielo stellato sopra di noi. Figuriamoci della legge morale dentro di noi!

giovedì 22 agosto 2013

Lo zen, il giardinaggio e l'arte di salire le scale


Oggi tutti parlano di meditazione. Non solo maestri di Yoga o Guru della spiritualità orientale ma anche grandi manager, consulenti di altissimo livello, uomini politici (stranieri, s’intende) indicano nella meditazione la chiave per affrontare la complessità del momento attuale e creare le condizioni per un equilibrato e solido successo personale e professionale.

Io ammetto che ho sempre avuto difficoltà con la meditazione. Ne ho fatta troppa e in modo sbagliato in età giovanile, tanto da sviluppare poi quasi una avversione: se infatti nessuno ti spiega come “fare”, ti trovi con la mente che vaga o -peggio- che gira e rigira i soliti pensieri e il corpo che freme inquieto per la forzata passività. Tutto questo ovviamente non ha nulla a che fare con la vera pratica della meditazione, ma tant’è ed alla fine io non ho mai davvero affrontato seriamente questa salutare disciplina. Forse mi sono avvicinato a qualcosa di simile anni fa, imparando le tecniche di auto-rilassamento e riuscendo in qualche modo a fermare anche il flusso dei pensieri, ma credo che la pratica quotidiana della meditazione sia un’altra cosa.

Il problema è che io sono una di quelle persone che viene definita “troppo mentale” e se - per meditare- fermo il mio corpo tutta l’energia si concentra sulla testa e in questo modo non può succedere niente di buono. Lo so, qualcuno mi dirà che non è così, che nella meditazione vera il corpo è coinvolto totalmente e bla bla bla. Resta il fatto che per me al momento la meditazione da fermo non è ancora una modalità “congeniale”. 
Quello di cui ho bisogno in realtà è che qualcosa sposti la mia energia dalla testa ai.. piedi. L’ho capito salendo quotidianamente i 500 e più gradoni che separano Amalfi da Pontone, o comunque muovendomi in quel comprensorio dove le scale sono così onnipresenti da ispirare il nome del Comune in cui alloggiavo: Scala, appunto. E’ una questione di ritmo: se vai troppo piano, pensi. Se vai troppo veloce, entri nel “trip” di volerci mettere meno tempo della volta precedente e non serve una mazza. Bisogna trovare il giusto ritmo, sufficientemente impegnativo da spegnere i pensieri, non troppo intenso da farti concentrare solo sulla fatica; e il giusto ritmo è cosa di gambe, di respiro e di cuore. Si sale, gradino dopo gradino, assecondando le variazioni delle alzate e ascoltando solo il proprio respiro e i suoni della natura, immagazzinando bellezza con gli occhi e sentendo profumi che altrimenti non sentiresti. E basta. Niente pensieri, niente ragionamenti o riflessioni. Solo gocce di sudore che scorrono lente in viso e lungo la schiena. Gradino dopo gradino. Gradino dopo gradino...
Credo davvero sia stata l’esperienza più vicina alla meditazione che io abbia potuto fare ultimamente. Devo dire per onestà che ad ispirarmi era stata la frase di un alpinista (di cui purtroppo non ricordo il nome) che raccontava in questi termini del suo “passo da ghiacciaio”; come sempre le cose che raccogli lungo la strada prima o poi ti tornano utili e le fai “tue” quando finalmente ne fai esperienza.
Io però, per salire in casa mia, ho solo dieci gradini. Tranquilli: c’è il giardinaggio. Potare rose, raccogliere foglie secche, tagliare una siepe sembra avere lo stesso straordinario effetto sulla mia mente: prima rallenta, poi senza che me ne avveda, si ferma e lascia spazio al ritmo dei movimenti ripetuti.
Funziona anche con il giardinaggio, quindi, solo che si suda meno.

martedì 20 agosto 2013

Le bon fou



L’ho visto mentre ero disteso al sole in una spiaggia di Amalfi. Era la settimana di Ferragosto e in quei giorni, per evitare l’affollamento, bisogna scegliere le spiagge più scomode ai lati del bellissimo centro marinaro. Lì è più facile trovare i locali che i turisti, anche perché si fa il bagno in mezzo alle barche e ogni tanto ci si deve spostare per far attraccare al molo un gommone o la barca che fa da traghetto per un ristorante sulla costiera.
L’ho visto, dicevo: era un uomo sulla quarantina ed era immerso fino al torace nell’acqua in un punto vicino alla riva, dove ancora si tocca il fondo coi piedi. L’ho notato perché sbatteva continuamente le mani sull’acqua, sollevando grandi spruzzi. Subito ho pensato volesse fare un dispetto o uno scherzo alle persone che gli stavano attorno. Poi ho notato l’insistenza del gesto, anche nei momenti in cui attorno a lui non c’era nessuno: dava delle gran manate coi palmi rivolti all’acqua e guardava l’acqua schiumosa sollevarsi. Poi si distraeva per un attimo, provava invano a fare qualcosa di diverso (tipo cercare di salire su un motoscafo ormeggiato nelle vicinanze) e quindi senza fare una piega, con le spalle spioventi, riprendeva ad alzare spruzzi tutto intorno.
Non so bene come verrebbe definita clinicamente una persona con simili comportamenti. Un tempo li chiamavano impietosamente “ritardati” o “scemi” (sì, come lo Scemo del Villaggio) ma in fondo -pur nella crudezza della definizione- c’era il riconoscimento di un tratto preciso: il loro essere innocui, incapaci comunque di fare del male con intenzione.
Io però, quel pomeriggio sulla spiaggia di Amalfi, non riuscivo a smettere di guardare quell’uomo che si comportava da bambino. Ero preso da pensieri amari, un po’ triste per cose mie nonostante lo splendore del posto e guardavo lui che giocava con l’acqua. E guardando ho cercato di cogliere i tratti di questa sua “follia” benigna, perché mi pareva avesse qualcosa da insegnarmi.
La prima cosa a cui ho pensato è l’inutilità del suo gesto. Fare spruzzi per fare spruzzi, e basta. A questa inutilità si aggiungeva la mancanza di efficacia: tutto questo movimento d’acqua per poi, quando era il momento di bagnare qualcuno, farsi sommergere dalla minima reazione rinunciando prestissimo alla lotta. Inutile quindi, inefficace e anche inappropriato al contesto: un adulto non può fare il bambino, non gli si addice; anche per i bambini è strano vedere un grande che si comporta come loro. Però lui, di questa inappropriatezza, proprio se ne strafregava. Ed ecco il quarto tratto della sua meravigliosa follia: l’indifferenza allo sguardo altrui, incluso il mio, e a tutti i codici di comportamento. E poi la spontaneità e infine la resistenza. Sarà andato avanti un’ora buona a batter l’acqua con le mani. Un’ora: provateci voi se siete capaci.
Inutile, inefficace, avulso dal contesto, indifferente allo sguardo altrui, spontaneo e resistente nel godere della ripetizione. Ma non sono forse questi gli stessi tratti del gioco di un bambino? Non è questo il modo in cui ognuno di noi sapeva divertirsi, prima di accettare il contratto che prevedeva la rinuncia alla spontaneità come prezzo da pagare per accedere alla società adulta?
E sapete cosa faceva “le bon fou” mentre sbatteva le mani sull’acqua? Rideva. Rideva di gusto e senza ritegno, con un’espressione ebete che pareva prendere per il culo tutti quelli come me, troppo adulti per potersi permettere di essere inutili.

domenica 18 agosto 2013

Vuoto per pieno


Cosa “fare” durante le vacanze? Come rendere questo tempo di inattività lavorativa pieno di altre attività (si spera) gratificanti? Con quali presenze riempire il luogo che abbiamo scelto come meta del nostro spostamento? Domande legittime, che nascono tuttavia da un fraintendimento. Vacanza viene “vacans” e ha la stessa radice di “vacuum”, “vuoto”. Vacante infatti è la sede o la posizione senza un titolare e -fuori dall’etimo- vacanza fa rima con latitanza.
La vera questione è fino a che punto riusciamo a lasciare “vuota” la nostra posizione abituale, fatta di ruoli, compiti, responsabilità, aspettative sociali, obiettivi da raggiungere e problemi da risolvere? Fino a che punto sappiamo concedere al nostro corpo, alla nostra mente e al nostro spirito il sollievo del vuoto, della vacanza appunto? Sollievo, possibilità di fluttuare ed espandersi in nuovi “spazi”, assenza di “gravità” o pesantezza, generazione di nuove combinazioni e possibilità inedite: che ci piaccia o no, questo processo creativo è reso possibile solo dalla leggerezza del vuoto. 
Ok, perfetto, ma se davvero tutti avessero questa esigenza, avrebbe ragione Samuele Bersani a chiedersi  “quante cazzo di isole deserte ha la Grecia?!”... Come avrete intuito, il tema non è quello della solitudine. Possiamo trovare la nostra latitanza ovunque, purché ci sia un altrove di pensiero, di atteggiamenti, di abitudini e.. connessioni. Sì, connessioni. Perché il paradosso è che facciamo centinaia di chilometri per allontanarci da casa ma la prima cosa di cui ci preoccupiamo è “essere connessi”, avere “campo” sullo smartphone e poter quindi coltivare la nostra ossessione di presenza collettiva simultanea. Lo facciamo, tutti, senza renderci conto che in questo modo non riusciamo a lasciare “vacante” la nostra posizione neppure per un giorno, o per un’ora: grazie ai Social e alla connettività globale noi “ci siamo” sempre per gli altri e quindi -per ovvia proprietà transitiva- siamo sempre raggiungibili da tutti.
Cosa succederebbe se, per alcuni giorni all’anno, qualcuno entrasse nella nostra “casella” (o cella) e trovasse la scritta “VACANTE”? Una momentanea perplessità, forse. Poi, tornandoci il giorno seguente e quello successivo, se ne farebbe una ragione e dopo un po’ non ci tornerebbe più. Perché a nessuno piace il vuoto. Forse è proprio questo che ci spaventa: ci terrorizza il fatto che se non ci facciamo raggiungere dal fiume di aggiornamenti e non lo alimentiamo a nostra volta con immagini e segni della nostra presenza, veniamo tagliati fuori dal flusso, esclusi e alla fine -cosa davvero inaccettabile- ignorati. 
I pittori fiamminghi, maniaci dei dettagli e abilissimi nella resa dei particolari, riempivano le tele di soggetti e oggetti fino a rendere le scene così affollate da far perdere di vista il tema principale della rappresentazione: i loro dipinti sono l’emblema dello “horror vacui”, dell’umana paura del vuoto e della conseguente necessità di riempire ogni spazio con presenze viventi o- il più delle volte - con oggetti inanimati. Le nostre vite iper-esposte somigliano un po’ a questi quadri fiamminghi: siano essi rappresentazioni di scene di caccia o nature morte la loro caratteristica di fondo è quella di essere “pieni”, ingombri di cose. Sia chiaro, probabilmente non c’è alternativa realistica a questo modo di vivere, almeno nel nostro sistema sociale ed economico; ma vuoi vedere che non sia possibile distaccarcene per qualche giorno, uscire dalla tela (rete!) e disincrostarci quel che basta? Tranquilli, poi ci torneremo di nuovo nel nostro quadro affollato, ma perlomeno ci saremo impediti di sedimentare incrostazioni su incrostazioni e ci saremo concessi la possibilità di sciogliere la continuità e aprire un varco al nuovo.
E l’anno successivo -ne sono certo- non vedremo l’ora di appendere alla nostra porta il cartello “TORNO [quasi] SUBITO”.

PS: ho scritto queste cose non perché sono più avanti degli altri. Semplicemente sono andato in vacanza in un posto dove la connessione era difficoltosa o assente: non è stata una scelta, ma devo dire che giorno dopo giorno si è rivelata una situazione provvidenziale.

sabato 20 luglio 2013

La parte per il tutto (sineddoche italiana)

Studiando letteratura greca e latina (ma anche italiana), è inevitabile imbattersi nelle cosiddette "figure retoriche": si tratta in parole povere di modi codificati fin dall'antichità per fare i fighi scrivendo o parlando.  Tra tutte la mia preferita è la sineddoche, in particolare nella versione "la parte per il tutto"; mi è simpatica perché la usiamo un sacco di volte anche senza rendercene conto (se ad esempio, vedendo una bella donna, i maschi del Bar Sport esclamano "che fica!", non è che intendano indicare che sta passando per strada una parte anatomica senza tutto il resto. Usano una sineddoche, è chiaro il concetto?).

Bene. Giorni fa, ascoltando per caso il dialogo tra un artigiano vicentino e alcuni suoi amici, ho avuto una illuminazione: la sineddoche è per eccellenza la figura retorica che definisce l'approccio dell'italiano medio alla costruzione del mondo. 

La cosa è avvenuta pressapoco così: sono seduto in un bar e nel tavolo vicino c'è il nostro imprenditore nordestino che, parlando di come va il suo lavoro davanti ad uno Spritz, ad un certo punto dice:

- "Eh, ho fatto anche la Vela di Dubai..." 

- "Caspita! Vuoi dire il famoso hotel che si vede in tutte le immagini degli Emirati?", risponde uno degli amici con espressione leggermente perplessa.

- "Sì, nel senso che ho fatto tutti gli allestimenti, gli interni..." 

- "Ah però!" -incalza l'amico- "Quindi fornisci l'arredamento completo di questi mega alberghi?"

- "No, non l'arredamento completo, solo le poltrone..." 

- "Tipo quelle superlussuose in pelle?" 

"No, io faccio solo le scocche in legno: né imbottiture né rivestimenti" 

- "Ah, le scocche..., ma con che legno? Roba pregiata penso..."

- "Mah, de solito uso pesso" [leggi: di solito uso l'abete]. Sorsata compiaciuta di Spritz.

Ecco, siamo fatti così. Ci sentiamo artefici del tutto anche se contribuiamo solo con una parte secondaria e pure invisibile: per lo stesso principio "abbiamo vinto i mondiali" in 60 milioni, anche se a giocare erano in 11, oppure "c'è un po' di Italia nello spazio" perché abbiamo fornito le guarnizioni del frigo di una stazione spaziale. 

Insomma, siamo discepoli eccellenti di De Coubertin: a noi mica interessa vincere, ci basta partecipare e poterlo raccontare al Bar Sport.

sabato 30 marzo 2013

Neanche i proverbi


Se volete una cifra simbolica della profondità dei cambiamenti che caratterizzano questo nostro tempo stra-ordinario, è senz’altro questa: non valgono più neanche i proverbi!

Fin dall’antichità (espressione generica che tradisce una non precisa conoscenza dei fatti), la cosiddetta saggezza popolare si è condensata in quelli che chiamiamo “proverbi”: sintetiche espressioni, spesso simboliche, che alludono a verità pratiche. “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” è una micro-narrazione a scopo pedagogico. Si potrebbe benissimo raccontare una lunga storia che inizia con “c’era una volta una gatta che, essendo golosa e in particolare molto ghiotta del lardo…” e finisce con una morale sulle nefaste conseguenze della cupidigia, ma il popolo ama la sintesi e allora il proverbio sentenzia la sua verità in un respiro.

Ma qual è la “pretesa” di ogni proverbio? Quella di essere “assoluto”, di valere per sempre e per tutti a prescindere dal tempo e dalle culture: una specie di codice comportamentale dell’umanità, distillato e liofilizzato in una sentenza. Questo non significa che sia vero sempre, neanche “la gente” lo pensa,  ma si presume che le circostanze a cui fa riferimento siano universali: “rosso di sera” è per tutti una delle variabili di colore del tramonto e il proverbio ci dice che statisticamente questo fenomeno fa sperare il bel tempo per il giorno successivo; è sempre vero che “rosso di sera” significa bel tempo il giorno dopo? No. Ma l’importante è che il proverbio faccia riferimento ad una “costante statistica empirica” che nessuno si sente di smentire.

“Morto un papa se ne fa un altro”. Eccoci. 
Lasciamo stare il significato allusivo e concentriamoci sull’oggetto del proverbio: nella storia della Chiesa, si dice con un’unica eccezione avvenuta 600 anni fa, il papa veniva sostituito solo dopo la sua morte. Questa sentenza racchiude una serie di “certezze”: c’è sempre un papa; il papa resta tale finché muore; tuttavia morirà prima o poi; quando sarà morto se ne farà un altro.
E cosa ti fa Benedetto XVI nel XXI secolo (evvai coi numeri romani)? Si dimette, resta vivo e fa sì che “si faccia” un altro papa senza che lui “muore” (alla Bastianich di MasterChef, non sono resistito). Già di per sé la cosa ha disorientato e stupito, tuttavia si sa che a livello puramente “associativo” e razionale tutto si può pensare e accettare.  Ma i sensi e la percezione hanno regole diverse, per loro una cosa c’è o non c’è, è una o è più di una e in base a questo re-agiscono: e allora quando sui giornali è apparsa la foto dell’abbraccio dei due papi siamo andati in corto circuito.


Guardate questa foto ogni volta che sarete tentati di pensare che, in fondo, il mondo non è cambiato così tanto e che prima o poi tutto tornerà come prima. Guardatela e fatevene una ragione.

mercoledì 27 marzo 2013

Scene da una separazione

Sospetti, stratagemmi di piccolo cabotaggio, finzione, aggressività dissimulata, controllo, energie sprecate ad ostacolare anziché a rinascere, presidio del territorio abbandonato, silenzio, freddezza, negazione e cancellazione delle tracce.

Succede nei rapporti affettivi, succede anche nei rapporti professionali: sono solo dinamiche, niente di più, niente di meno. 
Funzioniamo così e non è da farci un dramma.

sabato 9 marzo 2013

Perché non riusciamo a far stare tutto in uno scatolone?

L'immagine dei funzionari della Lehman Brothers che, all'indomani del settembre del 2008, uscivano dalla prestigiosa sede della Banca con  lo scatolone che conteneva le loro cose è ormai entrata nell'immaginario collettivo. A dire il vero già i film americani ci avevano abituato a questa icona del licenziamento. Perché là funziona così: un giorno sei lì con la tua tazza a sorseggiare caffè davanti al PC, il giorno dopo "non abbiamo più bisogno di te".

Lasciamo stare le considerazioni sul giusto e sbagliato, non è di questo che voglio parlare. Oggi voglio parlare di bagagli leggeri. Se sai che la tua posizione è provvisoria, non accumuli cose; non le sedimenti. Ecco perché in America basta uno scatolone per spostarsi di ufficio all'interno della stessa azienda, o in quella 20 piani sopra nello stesso grattacielo, o per finire in una strada.

Oggi ho sgombrato il mio ufficio e mi ci è voluto tutto il bagagliaio della station wagon. Senza ribaltare i sedili, d'accordo, ma vi garantisco che è grande lo stesso. Ci abitavo dal 1999 in quell'ufficio dalle grandi vetrate. Sì, ci abitavo: quando sei socio dell'azienda in cui lavori, finisci per considerare l'ufficio una estensione di casa tua; un po' perché effettivamente ci passi un sacco di tempo, un po' perché sei convinto che non te ne andrai mai. Beh, in 14 anni ho accumulato un sacco di cose: avevo 8 ante di armadio a disposizione e nel tempo le ho riempite di cartelline, documenti, vecchi telefonini, accessori per PC. Ho trovato persino i CD di "Infinito", che servivano per attivare l'accesso ad internet un'era geologica fa! Non le aprivo mai quelle porte ma non mi sono mai deciso a mettere ordine, a selezionare quello che veramente serviva: mi veniva male solo al pensiero.

E così si resta con gli armadi pieni di cose inutili ma che -per qualche misterioso motivo- pensi che prima o poi ti potrebbero servire, finché lo spazio raggiunge il punto di saturazione e allora non aggiungi più niente e non togli più niente. Resta tutto dentro. Tutto fermo. Non serve che spieghi la metafora vero?

Ci è voluto un terremoto, una acuta crisi all'interno della società, l'emergere di differenze profonde sugli obiettivi e gli stili di gestione per far saltare in aria questo tappo. E nel giro di pochi mesi tutto si è compiuto: dopo aver aiutato migliaia di persone a cambiare lavoro, senza mai cambiare il mio, ho deciso di lasciare la mia "creatura" perché non mi somigliava più (anche se a cambiare sono stato soprattutto io in questi anni: gli altri mica sono obbligati a cambiare con te!). Ho ascoltato la vocina che mi diceva di osare di più  e di dare concretezza alle idee che in questi anni si sono fatti sempre più chiari dentro di me.

Ma aspetta, sto divagando. Voglio tornare sul bagagliaio pieno, sugli scatoloni che -nonostante un metro cubo tra carta e oggetti buttati (differenziati, eh...)- ora dovrò piazzare in giro per la casa. Mi sa che cadrà inesorabile quanto provvidenziale  la mannaia di ogni trasloco, per cui metà della roba la elimini caricando e l'altra metà scaricando. Alcune cose infatti non sono riuscito ad eliminarle alla prima botta: apri una scatola, ci trovi dentro biglietti e cose che non avresti voluto riprendere in mano ma poi finisci per leggere con una vena masochistica. Poi ci sono le carte di mio papà. E non vorrai mica buttar via il set da scrivania in pelle vero?

Nonostante tutto, il pensiero degli armadi finalmente vuoti mi fa respirare meglio: ora c'è spazio per il nuovo. Anzi, non ci sarà più neanche bisogno di armadi perché la prossima volta, quando sarà ora di partire, voglio che tutte le cose ci stiano dentro uno scatolone. E per quello che ho in mente io, ogni giorno sarà una nuova partenza.


domenica 17 febbraio 2013

Resistenza e resa

"Resistenza e resa" è il titolo di un saggio del teologo Dietrich Bonhoeffer che non sono mai riuscito a leggere. Quelle parole mi hanno sempre messo inquietudine e così il libro è rimasto sepolto in libreria per decenni.

In realtà la potenza del titolo è tale che quasi ti sembra inutile scorrere le pagine. Sai già di cosa si parla, sai già che si parla di te, del tuo ego e della strenua resistenza che facciamo ad ogni tentativo di intaccarne le prerogative.
Rinunciare all'ego, all'affermazione di sé in contrapposizione a qualunque "altro" (o "Altro") appare come una mossa autodistruttiva e potenzialmente mortale. Arrendersi suona come "annullarsi", cedere, rimanere a terra sconfitti.

Poi passa il tempo, e la corrente della vita fa rotolare i sassi nel fondo del torrente smussandone gli spigoli taglienti e rendendoli più levigati (questa immagine la rubo a Mauro Corona, che tanto lui è famoso e non se ne accorge). E a forza di rotolare e smussarsi  si comprende.

E' la carne che capisce, prima ancora della testa. Oh no, la testa non ne vuole sapere di rese e rinunce. Mai: si ostina, lotta, difende e attacca. Resiste, appunto. Il corpo invece ad un certo punto molla: quando la tensione arriva al limite e ogni tua corda è tesa nello sforzo di trattenere succede che l'istinto vitale prevale e molli la presa. Abbandoni. Ti abbandoni. Decidi di non decidere più, di non stabilire tu dove rotolare e contro quali sassi andare a cozzare o in quale arena riposarti. Succede allora che gli eventi precipitano e in un primo momento si contorcono e si attorcigliano. E tanto maggiore era la forza con cui trattenevi tanto più violento è il colpo di frusta che può colpirti.

Non ci arrivi subito a quel punto, ci arrivi solo quando dentro di te ti senti pronto a perdere tutto, fuorché la vita. Ah... la vita dunque. Sempre lei. Ma che strano linguaggio parla, la vita. Tu sei convinto di resistere per salvarla, la "tua" vita, per non essere distrutto dagli altri o dagli eventi; lo fai in buona fede e ti senti legittimato in questa lotta snervante e solitaria. Resisti per sopravvivere e alla fine odi la vita che ti costringe a soffrire. Resisti solo, contro le forze dell'universo (che i più chiamano sfiga) e contro i quotidiani attacchi di chi sembra volere ciò che ti spetta.

Poi lasci, ti arrendi e in quello stesso meraviglioso istante capisci che il gesto tanto temuto, lungi dall'essere mortale, ti salva la vita.





mercoledì 30 gennaio 2013

Attesa tattica.

Sto fermo in ascolto, 
aspettando di percepire un segnale 
che suggerisca il prossimo passo.
Un fruscio, uno spiraglio di luce, 
un canto.

lunedì 28 gennaio 2013

Cosa bolle in pentola


Lo chiamava minestrone, ma in realtà quello che faceva mia mamma era un passato di verdure. Non c'erano insomma i pezzetti di patate, carote, fagioli, sedano ecc., ma tutto veniva tritato nel passaverdura per ottenere una densa e uniforme zuppa, il cui colore poteva virare dal marrone scuro al terra di Siena, a seconda del prevalere dell'uno o dell'altro ingrediente.
Non mi piaceva, ma non e' questo il punto. L'immagine che mi è tornata in mente in queste settimane di grande fermento è quella della pentola dove mia mamma preparava il suo "minestrone": io sono seduto sul tavolo della cucina e faccio i compiti, sul fornello bolle l'acqua con dentro le verdure e il vapore appanna tutti i vetri delle grandi finestre della cucina. Dentro la pentola, visto che poi comunque sarebbero state passate, le singole verdure sono intere o tagliate solo in due o tre pezzi e sobbalzano in continuazione salendo, scendendo e cozzando tra loro nel turbine provocato dall'ebollizione.

Esattamente così. In un momento di cambiamento importante tutti gli ingredienti del problema e delle soluzioni, del vecchio e del nuovo, sono immersi nello stesso liquido e si muovono vorticosamente e in modo apparentemente casuale e conflittuale.
Non ci si può mica fare niente. Bisogna lasciarli essere in questa compresenza dinamica e un po' stressante, anche per un tempo lungo. Diversamente gli estratti dei vari ingredienti non si mescolano e non si integrano, formando qualcosa di nuovo che sia più della somma delle parti. La trasformazione in gioco infatti non è fisica (reversibile) ma chimica (irreversibile).

La tentazione di intervenire, separare, accelerare questo processo è fortissima. In alcuni momenti questa commistione di cose vecchie e nuove risulta quasi insopportabile: è in quei precisi momenti che entra in gioco quella che chiamiamo "resilienza". In un recente articolo su Repubblica, Federico Rampini definiva questa proprietà -tipica dei metalli ma per esteso applicata alle persone, alle organizzazioni e alla società - come la capacità di rigenerarsi e riacquistare le proprie caratteristiche, dopo e nonostante esse siano state modificate o stravolte da un evento esterno.

Senza scomodare i grandi del giornalismo o i guru del miglioramento personale, direi che la resilienza potrebbe essere definita da un filosofo non praticante come la capacità di "stare" nelle situazioni, di reggere tensioni e incertezze fino al punto in cui -per una serie di circostanze interiori ed esterne- il processo di trasformazione chimica non sarà compiuto. Allora –e solo allora-  si potrà versare tutto il contenuto della pentola nel passaverdura e ottenere finalmente un risultato nuovo, che avrà in più lo straordinario pregio di recuperare anche quanto di meglio c'era nel vecchio.

Poi, una volta versato e assaggiato, se ci va chiamiamolo pure minestrone.

lunedì 21 gennaio 2013

Non si vede nulla


Di tutte le condizioni metereologiche, ce n'è un paio di cui non è così immediato il senso. La pioggia è essenziale alla vita, la neve pure e ci si può anche sciare sopra, addirittura il vento in certe giornate lo capisci, con la sua capacità di far piazza pulita nel cielo, di spingere una vela o ancora di farti vedere panorami mozzafiato. Ma la grandine e la nebbia a cosa servono? Non mi sto chiedendo come o in quali condizioni si formano, ma che funzione hanno nella visione antropocentrica dell'universo che -ci piaccia o no- ancor oggi ci appartiene.

Della grandine parleremo in altre occasioni, perché è la nebbia che mi ha ispirato questa riflessione. Ci pensavo domenica scorsa, salendo con gli sci una piccola cima del gruppo del Lagorai, in un paesaggio lattiginoso dove il confine tra il bianco della neve e quello della nebbia sembrava non esistere. Che strana sensazione: non vedi dove stai andando, non vedi la meta, non vedi il punto da cui sei partito. E non vedi il paesaggio. Ma che senso ha allora andare, proseguire, con la nebbia? Che se viaggi in auto è pure pericoloso, ma lasciamo stare le condizioni della modernità: mi interessa la nebbia in relazione al camminare.

E mettendo uno sci davanti all'altro, seguendo la traccia di chi mi aveva preceduto, ho capito una prima cosa. La nebbia ti costringe a guardare dove metti i piedi, ti focalizza sul qui e ora perché esclude tutto il resto. Quando c'è nebbia è inutile ragionare sulle prospettive lunghe: si è tutti concentrati nel presente fisico e si impara l'arte di temporeggiare. Sì temporeggiare, prendere tempo, procedere con prudenza, fermarsi all'occorrenza: tutto il contrario di quello che consigliano i guru della gestione efficace del tempo o i profeti dell'alta velocità competitiva.

Perché capitano nella vita i periodi di nebbia. Non so se ve l'hanno detto, ma capitano.  Momenti in cui non ci capisci granché un po' in tutti gli ambiti della vita: quelli che se vai da un astrologo a farti predire "amore, salute e denaro" ti risponde  "non pervenuto", come appunto avveniva nelle vecchie previsioni del tempo quando da una località non giungevano in tempo le informazioni sulle condizioni meteorologiche. Non vedi chiaro, non capisci, non percepisci prospettive di soluzione alle situazioni critiche in cui ti trovi; le stesse relazioni fondamentali sono opache o in stallo. Questa e' la nebbia.

E allora che si fa? Stai lì a chiederti come mai si e' formata, o come sia successo che ci sei finito dentro? Abbastanza inutile, converrete con me. Meglio rallentare innanzitutto. Ridurre la velocità, il ritmo, l'intensità del fare e -perché no- del pensare, e procedere piano guardando ad un palmo dal proprio naso. Fai  un passo, vedi un po' più in là, fai un altro passo e scorgi un riferimento. Ti confondi, non è quello che pensavi, e procedi guardandoti sempre le punte delle scarpe. Ah sì, non l'ho detto: la nebbia è una esperienza solitaria. E' vero che puoi seguire uno davanti a te che fa da "pesce" (si dice così nel gergo degli automobilisti) ma l'esperienza della scarsa visibilità è tendenzialmente interiore e singola, e se quello davanti va troppo forte tu finisci per lasciarlo andare e preferire un'andatura compatibile col tuo rapporto con l'assenza di visibilità.

Poi, a forza di andare avanti, arrivi al limite del banco. Questo è ancora più vero se stai salendo in quota. La nebbia e' stratificata: o è a monte o è a valle; per cui ad un certo punto cominci a veder filtrare il giallo del sole. Certo: il sole! Perché la nebbia viene con l'alta pressione, mica con la bassa pressione umida e nebulosa! E questa è un'altra utile metafora per la nostra vita: i periodi in cui siamo persi nella nebbia sono quelli in cui il cielo sopra di noi è sgombro da nubi e perturbazioni e manca pure il vento. Solo che evidentemente noi finiremmo per dare per scontato tutto, se ogni tanto non ci venisse sottratto alla visione.

E allora anch’io aspetto, camminando piano, che torni azzurro il cielo.

martedì 15 gennaio 2013

Mi sono perso.


Non sai mai quando inizi a perderti. Qual è il momento preciso in cui lasci la rotta che avevi tracciato e prendi una nuova direzione. Non lo sai perché all’inizio il cambiamento è impercettibile: una piccola deviazione, lo spostamento di qualche grado della direttrice che non sembra qualcosa in grado di compromettere il viaggio.

Oppure lo sai, lo “senti” che stai facendo qualcosa che non ti porterà bene, ma la voglia di provare e tanta e quel qualcosa che ti calamita fuori dal sentiero tracciato ha una potenza superiore alla tua volontà consapevole.

Difficile quindi stabilire se si tratti di un vero e proprio “errore” o se sia uno dei tanti modi in cui la vita ci porta a prendere consapevolezza della necessità di un cambiamento. Esci di rotta, quindi, e quando te ne accorgi con matematica certezza la reazione è quella di sedersi in un sasso e, con la testa tra le mani, chiederti come cazzo hai fatto a perderti per l’ennesima volta. Ovviamente imprechi, contro di te e contro la tua ossessione nel seguire tracce quasi invisibili volendo a tutti i costi vedere in esse un sentiero, ovvero una via che porti effettivamente da qualche parte.

E invece ti trovi nel nulla. Perso. Perduto. E di energie ne hai messe in quel percorso maledetto. Tante energie, che ora ti servirebbero per toglierti dai guai e invece non ne hai quasi più. Questo è esattamente il momento più pericoloso. Questo è il momento che sto vivendo adesso.

Sì è vero. Ci sei già passato e sai dentro di te che si può sopravvivere. Sai che grazie a queste deviazioni poi finisci per scoprire orizzonti che neppure immaginavi, oppure incontri persone che non avresti mai incrociato. O, ancora meglio, finisci col fare scelte che non avresti mai avuto il coraggio di fare. La prima scelta è quella di lasciare a terra tutto quello che non serve, il superfluo, quello che fa sprecare inutili energie. Quando ti sei perso recuperi un senso fondamentale, che nelle situazioni di cammino tranquillo tende ad assopirsi: il senso della sopravvivenza. Il “sentire” privo di esitazioni che distingue tra ciò che è “vitale” e ciò che è “mortale”, e ti fa seguire il primo ed evitare il secondo.

Bene. Seduti su quel masso, col desiderio di restare lì inermi ed inerti, si aspetta che arrivi. Si aspetta che arrivi la voglia e la forza di alzarsi di nuovo e mettere un passo dopo l’altro. Giustamente vi chiederete: “sì, d’accordo, ma la direzione in cui andare come si fa a deciderla?”. Non c’è nulla da decidere, secondo me, perché la scelta da fare è solo una, per quanto possa sembrare paradossale: andare avanti nella direzione in cui si stava andando, avendo “scelto” di sbagliare strada. E’ come fare un atto di fiducia nei confronti del proprio inconscio, che evidentemente ci ha attratti lì per un segreto motivo.

Tornare indietro non è mai un buon affare. Si può arretrare tatticamente in alcune circostanze, perché magari ci si trova di fronte ad un ostacolo insormontabile, ma non si deve tornare al punto di deviazione. Mai. Lo so che non siete d’accordo, ma io sto parlando della vita, non della morte. Si può anche decidere per la morte, sia chiaro, ma non è di quello che mi interessa parlare.

Quello che invece è necessario fare prima di ogni altra cosa è recuperare forze e non avere alcuna fretta di rimettersi in cammino. Si può camminare piano, cercare dell’acqua. Magari un riparo temporaneo dove curarsi le ferite e far rifiorire il vigore. C’è anche bisogno di spurgare molto, lasciar defluire le tossine accumulate nell’accanimento a voler seguire le promesse della nuova via. C’è da scontare un po’ di depressione e da lasciarsi vincere per un po’ dai sentimenti negativi.

Nel frattempo si cerca di stare meglio che si può, nei dintorni di quel masso dove ci siamo seduti, esausti e scoraggiati.