martedì 20 agosto 2013

Le bon fou



L’ho visto mentre ero disteso al sole in una spiaggia di Amalfi. Era la settimana di Ferragosto e in quei giorni, per evitare l’affollamento, bisogna scegliere le spiagge più scomode ai lati del bellissimo centro marinaro. Lì è più facile trovare i locali che i turisti, anche perché si fa il bagno in mezzo alle barche e ogni tanto ci si deve spostare per far attraccare al molo un gommone o la barca che fa da traghetto per un ristorante sulla costiera.
L’ho visto, dicevo: era un uomo sulla quarantina ed era immerso fino al torace nell’acqua in un punto vicino alla riva, dove ancora si tocca il fondo coi piedi. L’ho notato perché sbatteva continuamente le mani sull’acqua, sollevando grandi spruzzi. Subito ho pensato volesse fare un dispetto o uno scherzo alle persone che gli stavano attorno. Poi ho notato l’insistenza del gesto, anche nei momenti in cui attorno a lui non c’era nessuno: dava delle gran manate coi palmi rivolti all’acqua e guardava l’acqua schiumosa sollevarsi. Poi si distraeva per un attimo, provava invano a fare qualcosa di diverso (tipo cercare di salire su un motoscafo ormeggiato nelle vicinanze) e quindi senza fare una piega, con le spalle spioventi, riprendeva ad alzare spruzzi tutto intorno.
Non so bene come verrebbe definita clinicamente una persona con simili comportamenti. Un tempo li chiamavano impietosamente “ritardati” o “scemi” (sì, come lo Scemo del Villaggio) ma in fondo -pur nella crudezza della definizione- c’era il riconoscimento di un tratto preciso: il loro essere innocui, incapaci comunque di fare del male con intenzione.
Io però, quel pomeriggio sulla spiaggia di Amalfi, non riuscivo a smettere di guardare quell’uomo che si comportava da bambino. Ero preso da pensieri amari, un po’ triste per cose mie nonostante lo splendore del posto e guardavo lui che giocava con l’acqua. E guardando ho cercato di cogliere i tratti di questa sua “follia” benigna, perché mi pareva avesse qualcosa da insegnarmi.
La prima cosa a cui ho pensato è l’inutilità del suo gesto. Fare spruzzi per fare spruzzi, e basta. A questa inutilità si aggiungeva la mancanza di efficacia: tutto questo movimento d’acqua per poi, quando era il momento di bagnare qualcuno, farsi sommergere dalla minima reazione rinunciando prestissimo alla lotta. Inutile quindi, inefficace e anche inappropriato al contesto: un adulto non può fare il bambino, non gli si addice; anche per i bambini è strano vedere un grande che si comporta come loro. Però lui, di questa inappropriatezza, proprio se ne strafregava. Ed ecco il quarto tratto della sua meravigliosa follia: l’indifferenza allo sguardo altrui, incluso il mio, e a tutti i codici di comportamento. E poi la spontaneità e infine la resistenza. Sarà andato avanti un’ora buona a batter l’acqua con le mani. Un’ora: provateci voi se siete capaci.
Inutile, inefficace, avulso dal contesto, indifferente allo sguardo altrui, spontaneo e resistente nel godere della ripetizione. Ma non sono forse questi gli stessi tratti del gioco di un bambino? Non è questo il modo in cui ognuno di noi sapeva divertirsi, prima di accettare il contratto che prevedeva la rinuncia alla spontaneità come prezzo da pagare per accedere alla società adulta?
E sapete cosa faceva “le bon fou” mentre sbatteva le mani sull’acqua? Rideva. Rideva di gusto e senza ritegno, con un’espressione ebete che pareva prendere per il culo tutti quelli come me, troppo adulti per potersi permettere di essere inutili.

Nessun commento:

Posta un commento