martedì 15 gennaio 2013

Mi sono perso.


Non sai mai quando inizi a perderti. Qual è il momento preciso in cui lasci la rotta che avevi tracciato e prendi una nuova direzione. Non lo sai perché all’inizio il cambiamento è impercettibile: una piccola deviazione, lo spostamento di qualche grado della direttrice che non sembra qualcosa in grado di compromettere il viaggio.

Oppure lo sai, lo “senti” che stai facendo qualcosa che non ti porterà bene, ma la voglia di provare e tanta e quel qualcosa che ti calamita fuori dal sentiero tracciato ha una potenza superiore alla tua volontà consapevole.

Difficile quindi stabilire se si tratti di un vero e proprio “errore” o se sia uno dei tanti modi in cui la vita ci porta a prendere consapevolezza della necessità di un cambiamento. Esci di rotta, quindi, e quando te ne accorgi con matematica certezza la reazione è quella di sedersi in un sasso e, con la testa tra le mani, chiederti come cazzo hai fatto a perderti per l’ennesima volta. Ovviamente imprechi, contro di te e contro la tua ossessione nel seguire tracce quasi invisibili volendo a tutti i costi vedere in esse un sentiero, ovvero una via che porti effettivamente da qualche parte.

E invece ti trovi nel nulla. Perso. Perduto. E di energie ne hai messe in quel percorso maledetto. Tante energie, che ora ti servirebbero per toglierti dai guai e invece non ne hai quasi più. Questo è esattamente il momento più pericoloso. Questo è il momento che sto vivendo adesso.

Sì è vero. Ci sei già passato e sai dentro di te che si può sopravvivere. Sai che grazie a queste deviazioni poi finisci per scoprire orizzonti che neppure immaginavi, oppure incontri persone che non avresti mai incrociato. O, ancora meglio, finisci col fare scelte che non avresti mai avuto il coraggio di fare. La prima scelta è quella di lasciare a terra tutto quello che non serve, il superfluo, quello che fa sprecare inutili energie. Quando ti sei perso recuperi un senso fondamentale, che nelle situazioni di cammino tranquillo tende ad assopirsi: il senso della sopravvivenza. Il “sentire” privo di esitazioni che distingue tra ciò che è “vitale” e ciò che è “mortale”, e ti fa seguire il primo ed evitare il secondo.

Bene. Seduti su quel masso, col desiderio di restare lì inermi ed inerti, si aspetta che arrivi. Si aspetta che arrivi la voglia e la forza di alzarsi di nuovo e mettere un passo dopo l’altro. Giustamente vi chiederete: “sì, d’accordo, ma la direzione in cui andare come si fa a deciderla?”. Non c’è nulla da decidere, secondo me, perché la scelta da fare è solo una, per quanto possa sembrare paradossale: andare avanti nella direzione in cui si stava andando, avendo “scelto” di sbagliare strada. E’ come fare un atto di fiducia nei confronti del proprio inconscio, che evidentemente ci ha attratti lì per un segreto motivo.

Tornare indietro non è mai un buon affare. Si può arretrare tatticamente in alcune circostanze, perché magari ci si trova di fronte ad un ostacolo insormontabile, ma non si deve tornare al punto di deviazione. Mai. Lo so che non siete d’accordo, ma io sto parlando della vita, non della morte. Si può anche decidere per la morte, sia chiaro, ma non è di quello che mi interessa parlare.

Quello che invece è necessario fare prima di ogni altra cosa è recuperare forze e non avere alcuna fretta di rimettersi in cammino. Si può camminare piano, cercare dell’acqua. Magari un riparo temporaneo dove curarsi le ferite e far rifiorire il vigore. C’è anche bisogno di spurgare molto, lasciar defluire le tossine accumulate nell’accanimento a voler seguire le promesse della nuova via. C’è da scontare un po’ di depressione e da lasciarsi vincere per un po’ dai sentimenti negativi.

Nel frattempo si cerca di stare meglio che si può, nei dintorni di quel masso dove ci siamo seduti, esausti e scoraggiati.

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