martedì 30 dicembre 2014

Elogio del buio - Auguri 2014


C’è bisogno del buio per far risplendere la luce.
E’ una verità semplice quella dell’incarnazione: è necessario che scendano le tenebre, è necessario entrare nella grotta. Il buio è la casa della Luce.

La parte oscura dell’universo, quella che fa paura per la sua impenetrabilità, è presente nella storia e anche dentro ognuno di noi.
Le nostre angosce, le paure arcane, la ruvidità di tante nostre esperienze di vita, le ombre della rabbia, la solitudine: questa è la casa scelta dalla Luce per venire nel mondo e portare salvezza.

In questi giorni, dove tutto vorrebbe portarci “fuori” nell’abbaglio delle luci artificiali, potremmo fare qualcosa di diverso e “sovversivo”: stare un po’ nella caverna, da soli. Abitarla per qualche istante, sentirne gli odori e le vibrazioni profonde, dilatare le pupille e ascoltare il silenzio fino a farlo diventare parte di noi.

Aspettiamolo così questo Natale, per una volta, senza fuggire. 
La Luce arriverà improvvisa.
E scopriremo di non essere stati soli. Mai.

lunedì 15 dicembre 2014

Chi ce l'ha più lungo. (Elogio della misura)

La chiamano “sindrome da spogliatoio” e riguarda fondamentalmente i maschi. Almeno credo. Sembra cominci a serpeggiare sin dai primi anni della scuola elementare, quando inizia la pratica sportiva e con essa le abbondanti sudate e la puzza ai piedi. Probabilmente neppure si parlerebbe di questo problema se non ci fosse il bisogno di fare la doccia dopo l’attività fisica. O se se giocasse a scacchi, per dire.
Invece no. Gli sport che piacciono sono quelli in cui si suda e quando si suda si puzza, e quando si puzza si fa la doccia, e quando si fa la doccia tutti insieme si scopre la dura verità: non sono lunghi uguali.

I confronti cominciano a quell’età e non è che ci si limiti al colpo d’occhio. Si misura, si traduce in centimetri. Ci si vanta o ci si avvilisce, a seconda.
Crescendo gli ambiti della comparazione si fanno più ampi e differenziati. La scuola con i voti, la statura, i risultati sportivi, l’auto di papà, le ragazze, gli oggetti del desiderio, quante  macchinine hai o quanto prima completi l’album dei giocatori di calcio. Non ci si salva. Tutto si misura, tutto si compara e la classifica è spietata. “Quanto hai preso in matematica?”, “ma tu sei capace di arrivare al livello 7 del Nano Dragone?”, “guarda tuo cugino GianGianni: ha la media del 9 lui, e sta sempre a studiare”.
“Più di-”, “meno di-”, tu sei terzo, io penultimo, lui è primo. Non ci sono cazzi di discussione: c’è solo misurazione.

Poi un giorno leggi che le “misure non contano” (anche se ti chiedi come mai le donne ridacchiano mentre lo dicono) e soprattutto -finita la scuola- non c’è più nessuno che ti mette il voto o ti dice che non hai fatto abbastanza. Il lavoro è faticoso ma nessuno controlla più se hai studiato o meno. Lo sport è solo un passatempo, la doccia la fai per lo più da solo e dopo un po’ la panza ti toglie pure la visuale sull’antico oggetto del dubbio. Non si contano le calorie ingerite, nè tantomeno le birre bevute, non si misura il colesterolo, non si controlla la prontezza dei riflessi, non si verifica l’adeguatezza dei propri strumenti culturali o l’efficacia delle proprie funzioni mentali. Si vive, si procede, si consuma.

E’ bello liberarsi dall’incubo del metro e dei confronti. Ognuno cammini al proprio passo e fanculo l’ansia da prestazione. Via il cottimo dai criteri di remunerazione del lavoro, via i cronometri dalle linee di produzione, via i cartellini da timbrare, basta verifiche della prestazione: siamo adulti, per dio! E siamo liberi. 
Se poi da qualche parte i numeri risaltano fuori la prima cosa che s’ha da fare non è leggerli ma interpretarli. “Sì è vero, abbiamo perso il 12% ma in realtà il mercato ha perso il 17% quindi è come se avessimo guadagnato il 5%”. “Il nostro partito ha sostanzialmente tenuto le posizioni, se si tiene conto che nella precedente tornata c’era l’alleanza col partito “y” e soprattutto se ci si confronta con i risultati di cinque anni fa, quando il partito manco esisteva”. E tu prova a contraddirmi.

Va tutto bene, in questo collettivo oblìo della misura (mètron), finché non entra in gioco una parola rivoluzionaria, capace da sola di far evaporare l’illusione di poter procedere rallentando. Quella parola è “miglioramento”.
Se ad un certo punto della tua vita ti nasce l'esigenza o il desiderio di migliorare, ti diventa utilissimo, forse necessario, misurare.
Oh ma come è diverso: si riprende in mano il doppio decimetro [ok Rocco, tu prendi pure la stecca da 50], si tira un segno con la matita fin dove si arriva e poi si cerca di far meglio. Si misura con soddisfazione quel “di più” e si immagina dove potersi spingere un po’ più avanti, un po’ più in là (nel frattempo siamo usciti dalla metafora iniziale, si capisce vero?).

“Se corro 10 km in un’ora, perché mai dovrei cercare di correrli in 50 minuti?” E’ una domanda sana.
Tuttavia, se non misuri la tua prestazione attuale e non compi alcuno sforzo per migliorare, con elevata probabilità tra qualche mese quei 10 km ti richiederanno 1 ora e 5 minuti. E via così, secondo l’antica legge dell’inerzia.
Se invece ti metti nell’ottica di migliorare succederanno un sacco di cose, purché tu accetti di misurare: compiendo determinati allenamenti in determinate fasi e con determinate intensità il tuo corpo piano piano si abituerà alla fatica, riuscirà a convivere con il fiatone, aumenterà la sua efficacia meccanica e il suo rendimento energetico.

A me non piace misurare. A me non piace controllare.
Ma mi piace migliorare e mi piace star bene.
Per cui da oggi andrò katà mètron, “secondo misura”, come si addice ad ogni buon filosofo.



PS: per questo post sono debitore a Fortunata Pizzoferro e ai suoi metodici allenamenti nella corsa. Ieri mi ha contagiato e peggio per voi.

domenica 9 novembre 2014

FERMO IMMAGINE (* il prodotto potrebbe essere surgelato)


Se non c'è roba fresca da mettere in forno, si può sempre ricorrere al freezer.
Per quelle strane coincidenze, che forse tali non sono, stasera mi sono imbattuto in una serie di testi che avevo scritto prima di aprire il blog. E uno di questi risale esattamente a due anni fa.
Il momento non era dei migliori, ma non è un post triste anche se parla di finte morti ed ischemie.
Io sono ancora vivo e pure di buon umore. Anche mia mamma è viva, anche se non proprio allegra.
Però ogni tanto fa bene pensare al fatto che oggi potrebbe essere il nostro ultimo giorno e guardare da fuori quel che resta di noi, senza noi.

Novembre 2012
Capita ogni tanto di pensare che si potrebbe morire all’improvviso. 
Non tutti i giorni, certo,  ma quando accade non è detto che sia indice di chissà quale attacco depressivo. In questi casi, confessiamolo, dopo una vita passata tenendo conto dell’altrui opinione- non il primissimo ma il secondo pensiero va a quello che di noi resterebbe sospeso, da sistemare e… visibile. Insomma, quando muori ti entrano in casa, nei conti correnti, prendono in mano il lavoro che stai facendo, cercano nel computer se ci sono cose che servono a risolvere le rogne lasciate a metà. Guardano da fuori la tua vita nuda. Un fermo immagine improvviso: un, due tre stella! E tutto quello che era intimo diventa pubblico.
Ovvio, ci ho pensato stamattina, sennò non ne scriverei. Ma era un pensiero sereno. Ho cercato di farmi un’idea della mia vita guardando la casa dove abito con gli occhi di un estraneo. E ho trovato. Ho trovato poco e tanto: se fossi un giornalista potrei forse scrivere un pezzo senza neppure conoscerlo, sto’ Pozzan che non è più tra noi.
Cominciamo dalla cucina. Le stoviglie sporche sono nella lavastoviglie e c’è un discreto ordine “di manutenzione”. Il fornello ha la piastra per scaldare il pane ancora piena di briciole e sopra il ripiano c’è una pila di stoviglie pulite ma ammucchiate. L’estraneo cronista non lo sa, ma sono le cose di mia mamma che erano rimaste da lavare quando –una settimana fa- è stata ricoverata d’urgenza in neurochirurgia: io ho la lavastoviglie, lei no. Due moke che hanno fatto il loro dovere sopra il lavello e una delle due vasche intasata non scarica bene l’acqua: non è uomo da “fai da te” questo Pozzan.
Sul tavolo c’è un computer aperto. Si lavora anche nel week-end  quindi. Un iPad in carica: dentro poche App,  la posta aperta e molti appunti. Tre libri sopra il tavolo, due iniziati. Il discorso della vittoria di Obama fa compagnia ad una coppa con dentro un kiwi e una banana troppo matura. Aprendo il frigo si capisce che si è arrivati a fine settimana senza fare una vera spesa. Vino però ce n’è, dentro e fuori al frigo.
Un piccolo mobile stile dattilo con sopra una lavagna piena zeppa di disegni e scritte coi gessi colorati, con due nomi: Sara e Anna. La libreria, il divano con un altro libro iniziato appoggiato sopra al plaid, un grande mobile pieno di cose che si usano poco, TV compresa che se l’accendi è fissa sui canali per ragazzi. In camera il letto sfatto e i vestiti un po’ ammucchiati nella sedia. Quadri di donne: tutti quadri di donne a parte uno. La camera delle figlie, piena piena di colori, matite, disegni e cavalli.

Pozzan non ha ancora detto tutto quello che deve dire. Meglio che resti qui un altro po’.

Può iniziare il Secondo tempo!

mercoledì 27 agosto 2014

Basilicata Cost quel che Cost - Introduzione "ex post"


Due sono le domande. Te le fai tu, nel segreto dei tuoi pensieri, e te le fanno gli altri quando li metti a parte del tuo progetto: attraversare la Basilicata dalla costa tirrenica a quella ionica. A piedi e mica per il percorso più breve, no, per quello "panoramico" (che anche quando lo si sceglie come opzione nel navigatore finisce che con l'auto ci si va ad infilare in stradine assurde).
Due domande, dicevamo. La prima è "perché la Basilicata?". La seconda "perché a piedi?". A dire il vero le due domande si potrebbero sintetizzare in una soltanto: "chi ve lo fa fare?".
Questa introduzione è stata scritta al termine dell'avventura e non poteva essere diversamente: solo così si può tentare di rispondere alle domande appena formulate, sgombrando il campo da dubbi che -non rimossi- rischierebbero di relegare questa extra-ordinaria esperienza nel novero delle iniziative eccentriche e prive di un vero significato.

Alla prima domanda, che si interroga sulla scelta di attraversare una regione di cui si tende ad ignorare anche l'esistenza (peggio della Basilicata, in questo senso, è solo il Molise), si potrebbe rispondere semplicemente "perché no?". Ma cercherò di essere meno evasivo. Proprio perché è un luogo dimenticato dai più e poco considerato dal turismo di massa, se si escludono le quattro "M" (Maratea, Metaponto, Melfi e Matera), la Lucania è uno dei rari siti in Italia che ancora si possa dire "selvatico".

Soprattuto nella parte più montuosa, i piccoli centri abitati distano in media 15-20 km l'uno dall'altro e in mezzo c'è poco o niente. Si riescono a percorrere distanze notevoli immersi nella natura senza incontrare anima viva. Anche l'ambiente naturale è assai poco antropizzato, se si fa eccezione delle recinzioni di filo spinato che i pastori stendono in ogni dove, tagliando di frequente anche sentieri e mulattiere che in questo modo cadono in disuso e diventano impraticabili. Ma di questo parleremo più avanti.

Selvatico vuol dire crudo e non protetto. Significa che all'acqua ci devi pensare tu e non dare per scontato che la trovi per strada. Selvatico significa che puoi veder volare un rapace sopra la tua testa o incrociare un serpente tra le rocce o infine veder affiorare a 10 metri dalla spiaggia una tartaruga marina gigante.

Poi ci hanno fatto un film. Inutile dire che l'ispirazione di questo viaggio è nata dalla pellicola di Rocco Papaleo "Basilicata Coast to Coast", con le sue atmosfere di luce accecante, le feste in piazza e la vita zingara.

Passiamo alla seconda domanda: perché a piedi. Di nuovo potrei rispondere "perché no?". Innanzitutto a farla in macchina diventerebbe cosa da andata e ritorno in giornata. Che gusto c'è? Ma la questione è un'altra e ha a che fare con il camminare in sé.

Un viaggio a piedi ti fa entrare in un'altra dimensione, in un rapporto nuovo e diverso con il tempo, lo spazio, i sensi, le possibilità, le risorse, i limiti. Lo diciamo in poche parole? Camminare ti cambia la vita. Ricordiamolo: non stiamo parlando della passeggiata quotidiana e neanche di una escursione in montagna, con la macchina che ci attende a fine gita. Si tratta di intraprendere un percorso, cammino o pellegrinaggio che sia, che si snoda su più giornate e dove si possa contare solo sui propri piedi e sul bagaglio che si riesce a portare in spalla camminando 20 o 30 chilometri al giorno.
Perché a piedi? Perché è come tornare padroni del tempo e dello spazio. Paradossalmente, pur limitati nelle distanze percorribili, si assapora intensamente l'attimo e ad ogni passo si può decidere ritmo e direzione dell'incedere. Si può andare per la via più breve o allungare il percorso per vedere cosa si vede da là.

Poi i sensi, tutti e cinque e magari il sesto, si risvegliano in modo potente. Finché si cammina in terra sconosciuta, immersi nella natura, è come se la nostra capacità percettiva si amplificasse. Vedi tracce della presenza di animali, senti lontanissimo il gorgogliare dell'acqua, annusi costantemente l'aria a cogliere i minimi cambiamenti dell'ambiente. Tocchi la terra, le piante e l'aria. Ti esalti nel gustare due more mature di rovo, in mezzo alle stesse spine che prima ti hanno graffiato i polpacci.
Il sole scalda, l'ombra ristora, il vento rinfresca e asciuga, la pioggia... Non lo so, non è mai arrivata, ma sarebbe stata la benvenuta in certi momenti.
Un goccio d'acqua calda della borraccia può diventare la gratifica che ti concedi dopo aver superato un passaggio che ti ha fatto tribolare. L'acqua fresca di una fonte in mezzo al nulla? Meglio dello champagne.

In un cammino lungo c'è sicuramente una buona dose di improvvisazione, una quota implicita di incertezza che si deve accettare e si traduce banalmente nel poter decidere solo all'ultimo dove potrai dormire alla sera. Noi si è scelto di dormire in piccoli B&B o in agriturismo: chi si porta dietro la tenda questo problema non c'è l'ha (ma fa a meno della doccia!).

C'è il momento della partenza, dopo qualche giorno di cammino, quando i piedi protestano per un po' di chilometri prima di capire chi comanda e rassegnarsi a compiere il loro dovere. C'è l'attimo di scoramento, la preoccupazione di aver smarrito la via e la gioia infinita dell'arrivo, con le spalle che ringraziano per il sollievo dello zaino deposto.

Infine, ma quella è una scelta non una necessità, c'è la condivisione. Una esperienza di questo tipo, vissuta a fianco di una o più (meglio poche) persone, cambia molte cose. Dentro di sé e nelle relazioni. Un rischio che vale la pena di correre.

"Chi ve lo fa fare?" ci hanno chiesto.
"Mai saprete quello che vi perdete, se non provate". Rispondiamo noi.

Buona strada a tutti.

PS: in alcune riflessioni sul camminare sono debitore di David Le Breton e del suo "Il mondo a piedi" (Feltrinelli), recente lettura che dopo questo viaggio riprenderò con occhi diversi.

lunedì 25 agosto 2014

Basilicata Cost quel che Cost - giorno 7

Domenica 24 Agosto 2014

Orizzontale. Oggi sarà una giornata orizzontale.
Il percorso che seguiremo e ci porterà ad Aliano correrà lungo gli argini del fiume Agri verso valle. Quindi, per la prima volta, niente dislivelli e saliscendi, solo piatta e lieve discesa. Ovviamente negli ultimi due chilometri saliremo nel cocuzzolo circondato da calanchi ove sorge il paese di confino di Carlo Levi, che ispirò allo scrittore piemontese il romanzo "Cristo si è fermato a Eboli". Dico ovviamente perché,  pur senza andar per vette, i nostri 4600 metri di dislivello positivo (leggi salita) e altrettanti di negativo (leggi discesa e scegli tu quel che è peggio) ce li siamo sciroppati tutti.

Ma oggi, dicevo, è tutto orizzontale, anche il paesaggio. Il consiglio di Amedeo è di fare i bravi e di seguire la provinciale, che tanto di auto ne passa una ogni mezzora.
Secondo voi Pozzan lo ascolta? No. Su Oruxmaps la traccia dell'amico dei rovi sembra ricamare un contrappunto da un lato all'altro dell'arteria stradale: "stavolta non perdiamo il sentiero e riusciamo ad evitare l'asfalto".
All'inizio tutto bene. Incontriamo addirittura tre runners che procedono in senso contrario (quindi in un colpo solo vediamo il numero di persone medio che normalmente incontravamo in un intera giornata). Intercettata anche la galleria dove è stata girata una delle scene più famose del film di Papaleo: io tutto tronfio.  Fortunata saltella aspettandomi al varco.

E infatti. La strada diventa trazzera. La trazzera diventa sentiero. Il sentiero degrada in traccia. La traccia diventa campo di arbusti. La provinciale è sei metri sopra di noi. Sei soli fottuti metri pieni di rovi.
E qui esce 'a bbestia. Prendo un palo. No un bastone, una specie di enorme ramo, e comincio a prendere a legnate il ginepraio di spine finché si apre un varco che ci fa guadagnare il guardrail. Fortunata mi guarda dietro gli occhiali da sole e mi dice "tu vai a sentieri finché vuoi, io non lascio più la provinciale: non reggo più i rovi." E non regge più le scarpe. Quindi strada asfaltata e ciabatte. Chilometri dritti e infiniti sotto il sole verticale. Ormai i piedi sono spine e in questo scenario da deserto dell'Arizona cominciano ad attecchire i dubbi sulla prosecuzione della nostra avventura.
Cost quel che Cost,  ma non a tutti i Cost.

Però al bivio per Aliano ci arriviamo, dopo 20 chilometri. C'è ombra sotto la pensilina lignea della fermata dell'autobus e c'è pure una fontana: il posto ideale per mangiare un frutto prima di affrontare la salita. Ormai siamo arrivati, non ci può succedere nulla.
Le strade che salgono verso il centro storico sono due. Google maps (sì, il divorzio definitivo con la nostra guida virtuale era stato già sancito ore prima) ci consiglia quella a sinistra, nuovissima e molto larga. Ha dei blocchi di cemento che impediscono l'accesso alle auto ma noi siamo a piedi. Sarà venuta giù un po' di terra nella carreggiata: ne abbiamo viste di strade chiuse per un po' di terriccio franato.
Saliamo per un chilometro abbondante e ci troviamo di fronte ad una voragine apocalittica. Neanche 50 centimetri per passare. Fango secco e pezzi di asfalto ripido e sconnesso. Il guardrail sospeso nel vuoto come improbabile ponte incandescente.
Via le ciabatte.  Su le scarpe e la buona stella che finora ci ha seguito ci permette di superare indenni la frana.

Aliano è un paesino di 500 anime. Ai tempi del confino di Carlo Levi deve essere stata miseria nera e fame atavica.  L'uso di abitare i sassi non è solo della città di Matera,  solo che qui non è tufo. È terra che "fria", come direbbe Aldo del famoso trio.
Oggi è un borgo ricco di suggestione per via del paesaggio, dei calanchi, delle casupole imbiancate che sembrano avere occhi naso e bocca ma anche degli eventi culturali che si susseguono costantemente. Abbiamo la fortuna di far coincidere il nostro arrivo con l'ultima notte de La Luna e i Calanchi, un festival di musica e cultura del paesaggio. E di salsicce, birra e pollo arrosto. 

Rimessi a nuovo dalla doccia, vestiti sempre con i soliti abiti "da sera" e affamati per aver saltato il pranzo, giriamo a passo lentissimo per questo luogo fermo nel tempo, circondati da una folla molto "alternativa" in un tripudio di gonne lunghe a fiori, sigarette rollate e suonatori di Taranta.

Dopo la cena ci diamo appuntamento con gli ormai amici Amedeo e Teresa, assieme ai quali assistiamo allo spettacolo di Rocco Papaleo chiusi nell'abbraccio da nonna di piazza Pane e Vino. L'inno alla Basilicata,  cantato tutti in piedi ha il sapore di una meravigliosa sigla finale.

Eh sì. Bisogna saper iniziare le cose, ma anche sapervi por fine quando non hanno più senso. Si cammina con i piedi e se i piedi sono tutti una bolla non si va da nessuna parte.

Domattina alle 5.30 passa la corriera per Policoro e -dopo quasi 150 chilometri- noi ci si è rotto i coglioni di seguire vie che non esistono. Si va al mare e tanti saluti all'impresa.

Qui finisce anche il diario.
Per noi è stato un piacere condividere questa esperienza fantastica.
Sì, fantastica e intensa, come tutte le cose dure ma autentiche. E se qualcuno pensa che noi non ci si sia innamorati perdutamente di questa terra lucana, ha frainteso i nostri bisticci e non ha capito che si lotta solo per quel che vale.

"Ba-Ba- Basilicata... ma che ne sai, l'hai vista mai? Basilicata on my mind".

A proposito: il mare Ionio è turchese.  Che si sappia.

Basilicata Cost quel che Cost - giorno 6

Sabato 23 agosto 2014

Dio si è riposato il settimo giorno. Noi, per rispetto, un giorno prima.

La casetta nel podere di Amedeo e Teresa, protetta da mille ulivi e immersa in un giardino di fiori e pietre, è il luogo ideale per recuperare energia e concedere una tregua ai piedi e ai tendini.

Il programma della giornata è intenso: fare un gran bucato, scrivere, leggere, mangiare, lettera e testamento.
Parliamo di mangiare: Teresa ci ha deliziato con una cucina piena di sapori del territorio. L'orto generoso di verdure saporite, il bosco di funghi e tartufo.  Metti tutto assieme alla pasta fatta in casa e gusta il piatto in un ambiente rustico ma arredato con grande sapienza (abbiamo saputo poi che lo studio degli interni era opera di un giovane ed attivissimo architetto di Aliano, scomparso prematuramente un anno fa). Poi ci sono i salumi, i formaggi, le salsicce,  l'ottimo vino rosso del Vulture e -cosa vuoi di più dalla vita?- l'amaro Lucano.

La giornata passa così, a oziare e ad armeggiare con i compeed e il citrosil.

Con Amedeo e Teresa il feeling è immediato e presto ci troviamo a raccontarci vite e scambiarci idee su questa terra dalla bellezza ruvida, sui pro e i contro dell'essere seduti sul più grande giacimento petrolifero d'Europa, sulla figlia filosofa e sull'olio prodotto nella loro tenuta. La loro disponibilità si spinge ben oltre i doveri del buon ospite: grazie a loro riusciamo nell'impossibile impresa di trovare una camera ad Aliano, nell'ultima notte del festival "La Luna e i calanchi".

La sera si "conza" la tavola nella veranda, in perfetto stile Montalbano. Accese le candele si ascolta il silenzio interrotto solo dal pigolare (sì,  non lo chiamerei "miagolare") di una nidiata di gattini abbandonati dalla mamma e adottati dalla famiglia Falotico. E una storia lunga, di cani, di spostamenti di nido, di istinti, di madre natura e di siringhe di latte per poppanti. Non importa.  Resta che i gattini pigolano,  non miagolano.

Il bucato asciutto da mo'. Scatole di cerotti ovunque. Birra tardiva bevuta. Si va a nanna e domani ci si alza presto. Proviamo a ripartire. Ho detto proviamo.

sabato 23 agosto 2014

Basilicata Cost quel che Cost - giorno 5

Venerdì 22 agosto 2014

E fu sera e fu mattina. Quinto giorno.
Il borgo antico di Viggiano è abitato da due vecchiette e dagli ospiti dei B&B.
Scendo subito in piazza in cerca della farmacia. Dovrebbe aprire alle 8.30. Dovrebbe. Passa il tempo e solo dopo un quarto d'ora realizzo che è chiusa per turno (di venerdì?!). Niente magici compeed (quelli nello zaino non bastano neanche per metà delle vesciche), si fa in altro modo. Cerotti li vendono anche al negozietto della signora Maria.  Ago e filo? "Provi alla merceria ma non so se apre".  Tardi ma apre. "Di aghi ho solo questa confezione da 50 di tutte le misure" - "va bene" - "e il filo di che colore lo vuole?" - serve a bucare le vesciche... "color carne" dico io sicuro.

Per mezzora la camera si trasforma in un misto di infermeria e sala torture. Alla fine si riparte, io col tendine che finché non si scalda urla, lei camminando sulle uova. E ci aspettano altri 25 chilometri!

Giù dalla Rocca, in centro stanno montando le luminarie per la gran festa della sera (che noi ci perderemo).
I soliti 500 metri di strada umana e poi la traccia blu del GPS vira decisa per la trazzera tutta arbusti e spine. Cominciamo ad odiare il nostro sconosciuto Virgilio digitale. Celebriamo con tre secondi di silenzio compiaciuto il superamento dei 100 chilometri dalla partenza. Giusto il tempo di accorgerci che davanti a noi si para l'ennesimo cancello sbarra strada (e nella nostra testa, in sequenza, "cani", "rovi", "tornare indietro"). Salta anche questo e prendi in mano un grosso bastone: si imparano subito le buone maniere in questa terra cruda e bellissima. 

Le successive tre ore sono davvero impegnative. Il percorso ci fa attraversare due vallate tra boscaglie e calanchi esposti. La traccia va e viene come il segnale del cellulare. Ora si perde tra la vegetazione, ora riappare per poi scomparire di nuovo. Il bastone non serve per i cani ma coi rovi nessuna pietà. Si mena a destra e a manca finché si arriva ad un torrente a fondovalle. Sosta. Ombra. Ripartenza. Saltelli di Fortunata.  Io che meno il bastone sui rovi e poi di nuovo la traccia che fa i capricci ed entrerebbe in una proprietà privata tutta recintata da sembrare un lager. Andiamo di buon senso su per un pendio: poco sopra il gps indica una strada. Altro punto morto. Un varco creato dai cavalli. Ci infiliamo e arriviamo nel pantano di una falda acquifera. Dietrofront,  sali di lì,  mena di là, altro filo spinato e strada conquistata.

Bisogna domarla a bastonate la Basilicata, è cruda e non si concede facilmente. Un goccio d'acqua come gratifica. Si lotta ma ormai è amore giurato per questa terra. Però son passate tre ore e troppo pochi sono i chilometri. Non va bene.

Saliamo sotto il sole. Ombre rare ma nobili quelle delle grandi quercie. Una casa rurale in lontananza. Belato di capre e abbaiare di cani. Aridaje! Mentre ci avviciniamo piano, coi cani impegnati a tener calme le bestie, arriva dall'altro capo della strada l'auto del pastore che -capita la situazione- ci fa passare mandando altrove l'armento. Scambiamo due parole con quest'uomo sulla sessantina, occhi color del cielo. È uno dei pochi che resiste a tener viva campagna e pastorizia. In Basilicata, da quando c'è il petrolio, sono arrivati i denari e si fatica meno a lavorare per le grandi compagnie piuttosto che tirare a campare coi mestieri di sempre. Ci chiede da dove veniamo, dove stiamo andando e perché a piedi. "Ma voi che lavoro fate?" (tipo: per aver voglia di riposarsi facendo una cosa del genere...). "Lavoriamo tutti e due con le persone e in vacanza meno ne vediamo e meglio è" vorremmo rispondere. Non importa. È un uomo buono. Ci offre l'acqua della sua sorgente e ci indica di salire per i campi, che sopra c'è la provinciale. L'acqua è salvezza pura e lui è il primo angelo della giornata.

Arranchiamo per i prati arsi ma raggiungere la strada non è mai cosa scontata. Ci sono i rovi e c'è il filo spinato,  amici inseparabili dei nostri polpacci.
Ora la strada compirebbe una lunga ansa. Si può tagliare, dice il nostro perverso amico digitale, superando un colle di prati, pietre e arbusti. In cima troveremo un'altra stradina. E in cima invece c'è un prato con la vegetazione alta 50 centimetri e un altro bel reticolato. Scoramento.

Segui quella fila di alberi. Passa in mezzo qua. Forse si sbuca forse no. Poi sí.  È inutile: questa incertezza è parte dell'avventura. Prima o poi non potremo più farne a meno.

Quindi ti trovi in un altipiano a 1200 metri (per fortuna, col caldo che fa). Strada bianca circondata da vegetazione tutta uguale. Deserto. Chi vuoi trovare? Il secondo angelo, ovviamente.

Il campo di educazione ambientale della sezione potentina dell'OMPA sorge nel nulla. Ma c'è un auto parcheggiata e la musica va a palla. Acqua! No. Molto di più. Molto meglio.
Roberto è una guida naturalistica. Ci ascolta compassionevole mentre raccontiamo le nostre  peripezie e ci dice chiaro e tondo che i sentieri che stiamo seguendo sono i vecchi percorsi della transumanza, che non servono più e nessuno ci mette più piede. Già. C'è il petrolio adesso.
Alla fine gli facciamo pena, o simpatia. Offre a me una birra ghiacciata e a Fortunata un gelato. Rispettivamente la più buona e il più gustoso della nostra vita. Ci dà anche una dritta per accorciare il percorso verso Corleto Perticara, dove siamo riusciti a prenotare una camera in un agriturismo fuori dal centro. Ancora non sappiamo che lì troveremo il terzo angelo (questa volta in forma di coppia!).

Ristorati e incoraggiati (io, per l'entusiasmo, abbraccio una quercia secolare per mezzo minuto buono) iniziamo la discesa verso Corleto. Che sta in alto. Funziona così: lo vediamo davanti a noi a poco più di tre chilometri in linea d'aria ma in mezzo c'è una valle e la strada si allunga e i chilometri che mancano diventano sei.

Sei chilometri con i piedi gonfi di vesciche. Fortunata non sa più che fare col dolore ai piedi. Inizia a correre per appoggiare meno possibile le piante a terra. Io sto zitto ma cominciano in tutti e due a nascere i dubbi sulla possibilità di completare il nostro viaggio. È una vacanza, mica una penitenza!

Dio sa come, arriviamo a valle. Siamo a 150 metri dal paese, ma in verticale. Qui interviene il terzo angelo, fatto di due persone, Amedeo e Teresa, i proprietari dell'agriturismo La Braida di Corleto Perticara. Amedeo ci viene prendere e ci porta in farmacia, a far scorta di medicamenti. Quando arriviamo alla tenuta, immersa tra gli ulivi, l'idea scatta sincronica: "da qua domani non ci muoviamo". La camera in realtà è un appartamento.  Fuori giardino, porticati, fiori e tavolini sotto il patio. La cena ci ripaga di ogni fatica. I nostri ospiti sono squisiti padroni di casa: l'accordo per un'altra notte è preso all'istante.

Domani il cammino si ferma.  Si curano le ferite e si assapora l'ospitalità lucana. Che non è vero che son solo rovi e filo spinato. L'amore per la Basilicata è questione di emozioni forti e di graffi. Non è roba da romanzetti Harmony.

Buona notte stelle.

Basilicata Cost quel che Cost - giorno 4

Giovedì 21 agosto 2014

All'agriturismo si fa colazione alle 8. Noi alle 7 siamo nel seminterrato a trafficare con la macchinetta del caffè e a spalmare  fette biscottate che neanche i Ringo Boys.

Le poche goccie di pioggia della sera prima sono un ricordo strano di cui resta traccia solo nell'aria fresca di un mattino limpido. Moliterno è lì che ci guarda, arroccata sul colle. In linea d'aria sono 6 chilometri ma per arrivarci alla fine ne facciamo quasi nove. Un po' per via della traccia che stiamo seguendo, che ci mena per boschi seguendo poco più che vestigia di sentieri in disuso, un po' perché probabilmente gli abitanti di questo borgo temono ancora le invasioni saracene. Sbucati sulla statale, Moliterno sopra di noi, nessuna strada in vista per salirci. Proviamo di qua dove è salito quell'invasato che abbiamo scelto come guida. Ma "qua" dove?! La strada va in una direzione non ottimale e finisce in un podere. Chiediamo al contadino se si può salire fino al centro, "mah, in caso di emergenza sí,  ma vi trovate con un muro di rovi e magari ci sono i cani". Non te lo dicono proprio diretti diretti che non ti vogliono tra i coglioni nella loro terra,  ma te lo fanno capire benissimo!

Il carrozziere ci aiuta un po' di più e finalmente troviamo una bella via pedonale che sale dritta fino alla Villa Comunale. No. Non cercare il palazzo che perdi tempo. La Villa Comunale è il parco cittadino. Dopo tre volte lo capisci da solo. Moliterno ha un bel centro storico e ci stanno un sacco di ragazzini in magliette colorate che si cimentano nella pallavolo e nel calcio a 5 tra le vie e le piazze del paese.
Seconda colazione. Il vigile urbano ci guarda sorridendo e dice: "Ah... state facendo Basilicata Coast to Coast?! Ci vogliono gambe e tanta voglia. Solo quelli del nord lo fanno. Statemi bene e tanti auguri!". Grazie. Magari mandate qualche guardia forestale a tenere aperti i sentieri invece di fare gli spiritosi!

Oggi ci aspettano altre due tappe: Tramutola e -per necessità, visto che nella prima meta un posto per dormire non c'è- Viggiano: alla fine saranno 44 chilometri e lasceranno il segno.  Ci rimettiamo tosto in cammino e imbocchiamo una bella stradina in mezzo ai boschi. Va detto che qui i paesaggi sono di un selvaggio che ti entra nel cuore. Puoi fare miglia e miglia senza mai incontrare nessuno e neanche un minimo segno di presenza umana (eccezion fatta per il filo spinato che ti segue ovunque). Camminiamo da un bel po' quando, dopo aver oltrepassato l'ennesima catena di demarcazione della proprietà della strada, intravvediamo una cascina in lontanza. In questo caso la prima speranza è quella di poter ripristinare la scorta d'acqua. La realtà ha invece l'aspetto di quattro cani a sbarrarci la strada a ringhi. Proviamo ad avanzare. Aumentano le minacce. Alternative? Google maps dice che tornando indietro per 30 minuti si incrocia un'altra strada per Tramutola. Tornare indietro: che bruttissime parole! Uno sguardo ai cani e giriamo i tacchi. E quella che era stata discesa in un sol gesto diventa salita.

Lo scherzetto dei cani ci è costato tempo e allora bisogna accelerare il passo.
Quanto Moliterno si vedeva da ovunque, tanto Tramutola si svela solo all'ultimo chilometro. Vi arriviamo nel primo pomeriggio già provati, assetati e affamati. Entriamo in paese e non c'è anima viva. Un signore sta trafficando con la vernice nello scantinato. Gli chiediamo dove si possa mangiare qualcosa. Noi con lo zaino e l'aria del turista stampata in faccia. Lui con le braccia ai fianchi: " siete pratichi del centro?". Certo. Veniamo qui ogni sabato. Insomma, a farla corta c'è solo un bar vicino al benzinaio (scopriamo poi che aveva aperto poche settimane prima...) e lì ci piazziamo, scaraventando a terra gli zaini e mettendoci in ciabatte come fosse casa nostra.

Ci concediamo un po' di tempo perché altri 20 km ci separano da Viggiano (percorrendo ovviamente itinerari sghembi) ma poi ci dobbiamo rimettere le scarpe. Siamo così cotti che decidiamo di saltare la visita alla piazza, dove era stata girata una scena famosa del film che ci ha ispirati in questa avventura. Il sole picchia forte mentre seguiamo un sentiero che costeggia un'antica conduttura dell'acquedotto. Cosa sia l'ombra di un albero e i 5 secondi di fresco che ti procura lo capisci solo in queste circostanze.

Poi appare, Viggiano, in lontananza. Tanta lontananza accidenti. Fortunata zoppicante. Ha male ad ogni dito di uno dei piedi e sente i talloni fiammeggiare di vesciche. Tace e cammina stoicamente,  ma si capisce che  ogni passo è una fitta. Si va per campi e stradine ad angolo retto, sperando di incappare nella doccia dell'irrigazione destinata al mais e invece nulla.

Ormai è sera e mancano ancora chilometri. Passi automatici, velocità media che cala di ora in ora. Un casale. Una fontana col contadino che tiene buono il cane. Altri passi. Altri saltelli zoppicanti.

Siamo alle porte, ma Viggiano e aggrappata ad un colle e la rocca vicino alla quale c'è il nostro B&B è un bel po' in alto. "Ce la fai?". "Sì". Su la frontale e via per l'ultima salita.
Arriviamo in centro. Ci sediamo in mezzo ad una rotatoria e aspettiamo che la Panda del gestore del B&B ci venga in soccorso.  Prima di inerpicarci sul vecchio borgo prendiamo due pizze da asporto che mangeremo quasi fredde nel cucinino ma chissenefrega. A togliere i calzini ci penseremo dopo, che lo spettacolo potrebbe togliere l'appetito!

Basilicata Cost quel che Cost - giorno 3

Mercoledì 20 agosto 2014

I giorni critici si vedono fin dal mattino.
Alle 7 il frigo della colazione completamente vuoto, rapinato da ospiti più insonni e meno onesti di noi. Si fa colazione al bar e poi si parte zaini in spalla. Dopo 15 minuti di cammino ancora le nostre teste sono sovrastate dai nuovi svincoli di Lauria nord: un gran bel vedere insomma; poi finalmente inizia la salita verso il monte Serino.
Il sentiero è terra arata e battuta dalle gomme esagerate dei Quad. Qui in montagna mica si va a piedi eh?! Se tu chiedi a qualcuno quanto ci si mette ad arrivare là a piedi questo ti guarda con l'occhio da bue e ti dice "boh". Ed è pure meglio se ti dice che non lo sa, perché quando provano a sparare i tempi di salita son proprio fantasiosi: "in macchina ci vuole mezz'ora. A piedi penso un'ora...".O qui le macchine vanno a pedali o di andare in giro camminando la gente lucana manco ci pensa. Delle due una.

Saliamo dunque per questo sentiero dritto e moscoso. Tafani, per la precisione, a girarti intorno come fossi l'unica bestia nel raggio di chilometri. E probabilmente è proprio così!
Raggiunta quota 1200 metri, inizia un altipiano in mezzo alla steppa e non finisce più. Unica compagnia, i segnali del metanodotto della Basilicata.
Il panorama potrebbe essere carino ma non si vede nulla per via di felci ed equiseti alti due metri, che neanche nel giurassico.

Poi la scena si apre, dall'altra parte della valle monti alti e brulli e addirittura qualche casa. Noi si procede senza sapere bene cosa ci aspetterà. Abbiamo sentito parlare di un lago e di un rifugio, ma non sono in itinerario e allora ciao.

Dicevamo delle giornate critiche. Oggi il problema è dato dal nulla che ci accompagnerà fino alla meta: Moliterno. Tanta strada. Niente soste vere, solo un goccio d'acqua e si riparte. E si sbaglia strada. Con la traccia GPS te ne accorgi ma non subito, percorri 100 o 200 metri prima di vedere che il segno rosso ha preso un angolo diverso dal segno blu. Forse è di qua... No. Allora proviamo di là. No. Ma non ci sono altre strade! Aspetta, qui c'è la parvenza di sentiero. Il GPS conferma e noi si affronta la sterpaglia che invade sempre la via giusta.
Questa scena si ripete più volte. Troppe volte. Ma alla fine si trova, alla fine si va.
Poi ad un certo punto tutte le vie sembrano perdersi nel nulla. Proviamo almeno 5 direzioni diverse ma tutte portano altrove o si spengono nei pascoli. E noi ci entriamo, in mezzo ai pascoli, col gps puntato a mirare una ipotetica intersezione con la nostra traccia lì, a meno di 50 metri. Ma il bosco e la sterpaglia spinosa diventano un muro e ci tocca fare i moonwalker.

Due scelte: abbandonare la nostra traccia e seguire l'unica strada che meritasse quel nome in mezzo a tale deserto di abbandono. Oppure tornare ad insistere tra i rovi della direzione giusta. E così facciamo. E facciamo bene! Malmesso ma c'è: vittoria! Certo, di Pirro.
Un cancello con tre ordini di filo spinato ci sbarra la strada. Davvero questi lucani non ne vogliono sapere dei turisti a piedi.
Oh beh, ma arrivati a questo punto mica ci fermiamo di fronte ad un reticolato. C'è lì vicino una branda metallica e siamo del tutto intenzionati ad abbattere l'ostacolo: sto ancora saltando sulla rete del letto per cercare di staccare almeno un giro di filo spinato che un tipo si avvicina alle nostre spalle. È un pastore, o il mandriano, che importa: non sembra contento.

Lei, subito, "ci siamo persi...".
Io, ridicolo, mostro all'orso lucano il mio palmare con la traccia del sentiero. "Non ci siamo persi, è che il sentiero sparisce".
E lui, tranquillo: "voi siete perfetti nel sentiero, solo che il sentiero non c'è più" - concetto chiarissimo, mancava solo la mano sulla fondina - "vi faccio passare ma vi conviene raggiungere la strada asfaltata, che qui è tutto cancelli. E cani".
Quell'ultima parola ci convince definitivamente. Asfalto: a noi!

E dopo chilometri di sentiero deserto, arrivano chilometri di strada nel nulla. Fame e ginocchia incazzate. Morale a terra e passi automatici finché una giovane contadina non ci dice le due parole magiche "agriturismo" e "vicino".

La facciamo breve: alle 15 siamo con le gambe sotto il tavolo in un trionfo di pasta porcini e tartufo.
Per oggi ne abbiamo abbastanza. Ci si ferma qui.

venerdì 22 agosto 2014

Basilicata Cost quel che Cost - giorno 2

Martedì 19 agosto 2014

Lasciamo Trecchina senza granché da ricordare e imbocchiamo una serie di stradine in direzione Lauria. La meta è visibile, dall'altra parte della valle: sarà tutto semplice.
Incontriamo pure Biagina, simpatica vecchietta dagli zoccoli in gomma che saltella tranquilla tra ciotoloni ruzzolosi che noi quasi ci si scatapiglia.

La baldanza dura neanche il tempo necessario a scaldare i polpacci. La traccia che col nostro GPS dovremmo seguire è interrotta da una sbarra e chiusa da rete metallica. Unica alternativa rischiare la vita seguendo la statale per quasi dieci chilometri. Eh no! Si cerca un passaggio, si spostano frasche e canneti ma niente. Non si passa.
Quindi si torna alla sbarra: c'è una corda che la fissa al piantone... Proviamo a toglierla ma non si muove nulla. Ok, scavalchiamo! Solo in quel momento ci accorgiamo che la sbarra all'altra estremità si può muovere e spostare: "allora non era chiusa! È solo una protezione per non far uscire gli animali" dico io illudendomi di aver capito tutto.

Imbocchiamo la stradina. Seguiamo perfetti la traccia GPS, notiamo che la vegetazione ha un po' attecchito sul sentiero ma niente di che.
Raggiungiamo un torrente, scattiamo due foto e poi altro cancello, altra rete metallica a bloccarci la strada. Ma quello ormai non ci ferma più. Molto più preoccupante la condizione del sentiero, completamente invaso da alta vegetazione, ivi compresi cardi e rovi. Torniamo indietro? No.
Andiamo avanti? Mah...
E ancora a scavalcare, incuranti dei messaggi di dissuasione dei padroni di casa.
Ci saranno 30 gradi ma ci tocca indossare pantaloni e maniche lunghe. E avanti. La sbarra successiva parla più chiaro: divieto di accesso - proprietà privata. Scavalcala. 20 metri altra sbarra e fine della proprietà privata. Fottuti Lucani.

Usciamo dalle spine e pestiamo soddisfatti l'asfalto fino a Lauria. Un po' di giri a vuoto in cerca di un centro storico che in realtà non c'è e lo stomaco comincia a reclamare.

La tentazione di entrare nella prima tavola calda e farla finita c'è. Ma oggi ci va di scavalcare. Saliamo, chiediamo, troviamo chiuso, insistiamo (ma sempre salire bisogna) e alla fine la costanza è premiata. Un ristorante come si deve e un tavolo in terrazza. Un litro d'acqua scompare in due secondi e si può finalmente degustare. Maccheroni al ferro (sì, ferro non farro) con sugo piccante al pomodoro e striscicati salsiccia e funghi. Un calice di Aglianico e uno di Falanghina. Il gelato? Lo Zucco , una specie di tartufo artigianale in vari gusti. Il conto? Onestissimo.
Come sempre, pieno lo stomaco, si pensa a dove posare le chiappe stanotte.

Il prossimo centro è a più di 20 km e in mezzo c'è la vetta di un monte.
Meglio limitarsi a 6 chilometri e trovare un affittacamere proprio vicino allo svincolo A3 di Lauria Nord. Posto deserto ma camere nuovissime. Vabbe', l'anonimo esterno e l'arredamento all'interno fanno intuire che si tratti di un ottimo nido per coppie clandestine. Ma sotto c'è una pizzeria da camionisti e la doccia è una priorità non negoziabile.
Domani ci aspetta un percorso selvatico, meglio recuperare forze e riparare le magagne.

Basilicata Cost quel che Cost - giorno 1

Lunedi 18 agosto 2014

Una spalla sublussata da una parte. Postumi di una febbre a 38, una leggera distorsione all'alluce destro e un Herpes labiale invasivo dall'altra.
Non è l'esito, è l'inizio.
Con questo quadro clinico confortante partiamo da Amalfi. Uno strappo in auto fino a Minori, le curve della costiera in autobus fino a Salerno a far ballare lo stomaco e infine due ore di treno regionale sovraffollato in direzione Maratea, con scene da terza classe di altri tempi.
Ma ora siamo qui, sotto il Cristo Redentore. E si comincia.

Il programma del primo giorno sarebbe stato il solo trasferimento da Amalfi a Maratea, noi però non ci si fa mancare nulla. Maratea, nobile e sdegnosa, ci rifiuta l'ospitalità. È tutto pieno. Non c'è posto. Oppure ci sta, ma costa caro e si dovrebbe tornare giù a livello mare. Indietro no: è una regola.


Sono le 18. Quanto dista Trecchina, il centro più vicino? 11 chilometri. Lì c'è una stanza e la troviamo grazie alla gentilissima impiegata dell'ufficio turistico di Maratea: non che avesse altro da fare, ma con noi ha fatto più del suo dovere. Si parte subito a piedi, anticipando parte del percorso previsto per l'indomani. La donna sorride ma si capisce che tra sé e sé si chiede chi ce lo faccia fare.

La strada è asfalto e macchine che sfrecciano un po' troppo vicine. Ad un certo punto l'itinerario scaricato da internet che dovremmo seguire grazie al gps ci mette di fronte ad una strada  chiusa da rete metallica e filo spinato. Forse ci siamo sbagliati, non abbiamo ancora confidenza con lo strumento. In ogni caso meglio sacrificare la variante panoramica e scegliere quella più veloce: i monti alle spalle accorciano il crepuscolo. 

Alle 20 siamo a Trecchina. E i manifesti dicono che stasera c'è pure il concerto di Fiordaliso in piazza.
Doccia. Si lava la maglia che ha già 500 metri di salita a livello ascelle da epurare e si esce.
Cibo! Il ristorante scelto coi Social ovviamente è pieno. Vanno tutti lì. Il primo tavolo libero è alle 23.00. Grazie tante. Poco più avanti c'è la trattoria alla Tettoia (che a noi subito era parsa "alla tettona". Ma no, proprio no, non era così).
Cucina casalinga, onesto l'Aglianico del Vulture sfuso, superbo il salame di cioccolato, degno del bis. Tira un'aria fresca e mi sa che il concerto di Fiordaliso lo si ascolta dalle finestre della camera.

Appoggiando la testa sul cuscino, la domanda ci ronza ancora dentro: "perché lo fate?".
La risposta ci sarà alla fine. O anche no.

domenica 29 giugno 2014

Lo zio è il padre dei vizi.

I Libri di Lettura delle elementari spiegavano le cose attraverso i racconti, o almeno era così ai miei tempi. Nel caso specifico si raccontava di un alunno distratto che - omettendo un apostrofo - sostituiva il povero zio all’ozio nel poco invidiabile ruolo di padre dei vizi. L’obiettivo era quello di far capire l’importanza di questo grafema, ma io ho sempre sospettato che il ragazzino in realtà tifasse per il dolce far niente e non se la sentisse di imputare ad una in-attività così piacevole l’origine di tutte le depravazioni umane.
Anche per la maggiore delle mie figlie, che a quattordici anni ancora sa dire “il re è nudo!”, una domenica di pioggia passata senza togliersi il pigiama fino a sera è una giornata indimenticabile. Sonnecchiare, leggere, guardare qualcosa alla TV, ridere, chiaccherare senza alcuna preoccupazione di scopo o utilità. Questo è l’ozio.

Io non ci vado gran d’accordo con l’ozio, almeno da qualche anno a questa parte. L’ho bandito dai miei pensieri e dai miei programmi: solo “facendo cose” e “andando in posti” riesco a sentirmi bene. Certo, essere tonico e tenersi in forma, usare come forma di recupero il variare delle attività, non abbandonarsi all’apatia, sono tutte condizioni positive e da coltivare con costanza. Il problema, come sempre, nasce quando non riusciamo a fare diversamente, per cui ci inventiamo ogni cosa pur di non passare un week end a casa e se arriva il mercoledì e ancora non abbiamo un piano per il fine settimana cominciamo a smanettare sul web per vedere almeno che tempo farà.

Poi per qualche motivo succede che le cose cambiano. Se sei fortunato, nulla di drammatico ti costringe a farlo. Semplicemente ti lanci in una sfida nuova che sai cambierà i tuoi equilibri, parti per un viaggio (simbolico o reale) con la segreta consapevolezza che indietro non si torna, decidi di inserire qualche ingrediente di rottura nella tua quotidiana (per quanto varia) continuità. Quello che ti capita in un primo momento, quando affronti questa totale estraneità, l’ho già descritto in un altro post. Il bello è quello che accade dopo.
Ti aspetti che tante cose si smuovano, che si aprano scenari inattesi. Insomma, sei lì che guardi cosa succede. E non succede un cazzo.

Allora cominci a farti domande (inevitabile per uno come me) e le risposte non arrivano. Ti vengono dubbi (normale per uno come me) e l’umore stagna nei piani bassi. Finché non ti arrendi e comprendi che non c’è altro da fare che aspettare e concederti una pausa. Da tutto. Questo è il momento in cui entra in scena l’ozio: ti riposi e non fai nulla di speciale se non vivere. Scarichi, decomprimi, rilassi, abbandoni, attendi.

Se ti opponi e ti ostini a cercare “nuove cose da fare” ti ritrovi presto al punto di partenza, per cui la cosa più saggia è interrompere l’azione. E’ come se il corso delle cose, per modificare il proprio ritmo e la direzione, avesse bisogno di una fase di limbo in-utile. Quanto durerà? Non lo sai. Però cominci a capire che è semplicemente necessario accogliere questo momento per quello che è: un tempo vuoto eppure fecondo.

Staremo a vedere cosa germoglierà in questo terreno che in superficie sembra immobile, ma che in profondità fermenta e preme.

Odio ammetterlo, ma per andare avanti talvolta è necessario fermarsi e stare in compagnia dello zio fannullone. Almeno per un po’.

venerdì 18 aprile 2014

Pasqua nel deserto

Il deserto è l’altrove per eccellenza. E’ dove tu non vorresti andare, dove non sei attrezzato per vivere, dove mancano le cose che chiami “casa mia”.

Nel deserto non ci si può fermare, ci si può solo transitare. Anche chi il deserto lo abita è costretto ad una continua migrazione. Nel deserto il vento sposta le montagne di sabbia e consuma le rocce: se ti fermi muori. E’ uno spazio crudo da attraversare per arrivare in un altro luogo dove la vita sia migliore, o per arrivare dove ci chiama il nostro destino.

Nella vita capita di attraversare deserti. Alcuni li scegliamo, da altri siamo attratti, in altri ci finiamo spinti dagli eventi. Lo capisci subito quando ci sei dentro perché tutto diventa improvvisamente estraneo e faticoso. Per progredire e sopravvivere servono capacità nuove e tutta la tua energia vitale, ma le capacità nuove hanno bisogno di tempo per diventare abilità e l’energia prontamente disponibile ti sostiene solo per un po’. Esaurita la prima spinta, arriva il momento più difficile: indietro non si torna, andare avanti è durissimo. E qualche volta compi giri a vuoto, e procedi a fatica, e vorresti mollare.
“Chi me lo fa fare?”. “Io ora mi siedo sopra un sasso e sto lì ad aspettare”. Aspettare cosa? Che la morte mi porti via. Oppure che succeda un miracolo.
Proprio lì, sopra quel sasso -se la vita ti chiama e tu rispondi- succede il miracolo. Da qualche parte, nel profondo di te, sgorgano risorse nuove. Niente di irruento. Niente di portentoso. Solo un filo costante di energia ostinata.

E a quel filo ti attacchi per tirarti su e mettere un passo davanti ad un altro. Non vai più veloce di prima, vai magari più piano, ma non ti fermi più. Alcune cose cominciano a darti meno fastidio o le sopporti senza scoramenti; hai imparato il ritmo dei giorni e delle notti, sai quando puoi spingere e quando devi lasciare andare. Succedono sempre cose, spesso negative, ma non hanno più il potere che avevano prima.
Cominci a pensare che potresti davvero farcela [nel frattempo capita un piccolo incidente] e che la strada che resta da percorrere si può affrontare [un’altra piccola cosa va storta]. Impari a convivere con la stanchezza e la smetti di chiederti “perché” è toccato a te questo destino [ora succede una piccola cosa bella ma per te è più preziosa di un sorso di acqua fresca]. Lasci stare i “perché” e ti concentri sui “come”. Lasci stare come stavi prima e impari a star bene anche in quel posto indesiderato. E ringrazi, perché ti è data la possibilità di giocartela. Quando riesci a ringraziare è fatta. 

E ci uscirai dal deserto, ma non sarai più quello di prima. 

Sarai sempre solo, non illuderti, tuttavia avrai imparato ad apprezzare la dolce compagnia delle tue paure. E nulla ti potrà più fermare.

domenica 23 marzo 2014

Il martello e l'aquilone.

Pensa a qualcosa di leggero, tanto da potersi librare nell'aria. Un aquilone è un buon pensiero.
Ora pensa a qualcosa di duro e pesante: un martello a mazzetta è un buon pensiero.
Giorni fa ammiravo le foto che un'amica ha scattato ad una Festa degli Aquiloni; in mezzo al tripudio aereo di colori e forme mi ha colpito l'immagine di un martello appoggiato a terra, vicino ad altri attrezzi.

A che serve un martello in una disciplina dove il peso è l'unico nemico, se non si conta la mancanza di vento? La risposta è "non lo so", ma evidentemente serve ed è un attrezzo così utilizzato dai praticanti di questa antica disciplina orientale da indurli a scrivere il proprio nome sul manico. A dire il vero mi interessa relativamente conoscerne la funzione, so solo che questa immagine mi ha colpito proprio perché associata al mondo della leggerezza. In fondo è questo il mestiere del filosofo non praticante: lasciarsi provocare da ciò che vede e ciò che sente, provando a dare un nome alle emozioni e un'ordine ai pensieri. 

E un pensiero è arrivato. Elementare ma è arrivato, partendo dall'alto e andando in basso, unendo il cielo e la terra, lo Yin e lo Yang. L'aquilone vola, ma a tenerlo collegato con con il suo padrone c'è un sottile filo quasi invisibile; grazie a questo legame non solo l'aquilone evita di perdersi nei vortici, ma riesce anche a sfruttare al meglio le correnti ascensionali ed evita di cozzare contro alberi o altri ostacoli. All'altro capo del filo serve peso e servono congegni robusti che permettano di dare corda o rapidamente recuperarla. Tuttavia, se si vuol fare alzare in volo l'aquilone tutto questo ancoraggio deve muoversi e prendere velocità facendo sì che la grande meraviglia colorata prenda il vento e disegni volute o si fermi fiero alla massima altezza concessa dal filo. C'è abbastanza confusione? Bene, allora siamo nel giusto.

Ci vuole Yin e ci vuole Yang. Ci vuole cielo e ci vuole terra.  Le fronde di un albero si possono spingere tanto più in alto quanto più le radici sono profonde in basso. La carta di riso e il bambù sono tutt'uno coi piedi dell'uomo che regge il filo. Il martello è l'aquilone e l'aquilone è il martello.
Dimenticati di questa cosa, e farai la fine di Pimpi, il maialino amico di Winnie the Pooh, che vola via appeso ad una foglia al primo soffio di venticello. Oppure ti toccherà la sorte grama dell'asino Ih-Oh, schiacciato a terra dalla forza di gravità e con la coda fissata con una puntina sul culo.

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Foto di  Elisa Cocco.

domenica 16 febbraio 2014

Provaci ancora Sam!

Quello che ci dice la "vocina" che abbiamo dentro è -più tecnicamente- frutto del nostro dialogo interiore. Fin da quando siamo piccoli, tutte le cose che gli altri ci dicono finiscono per diventare il nostro modo di pensare, tanto che ci sembra proprio di sentirla quella voce che dice "non ci provare: non hai alcuna possibilità di farcela" oppure "ma perché dovrebbe succedere proprio a te questa cosa fantastica? Cosa hai fatto per meritarla?" o ancora "hai tentato molte volte, con quali risultati? Perché stavolta dovrebbe essere diverso?". Questo dialogo, fatto di parole in origine non nostre, tende a sovrastare quello che invece il nostro cuore davvero desidera e di cui c'era traccia nei sogni che avevamo il coraggio di fare da bambini, o nell'aspirazione profonda che si nascondeva dentro alla frase "voglio fare l'astronauta" o "sarò un cavaliere" o "una bellissima principessa".
Così accade che, di fronte ad una piccola o grande sfida, anziché dire "provaci, dai: ce la puoi fare", la vocina interiore ti dice "lascia stare, in fondo non è così importante. Puoi essere felice lo stesso".

Sia chiaro, non mi sto riferendo a coloro che son caduti da piccoli nella pozione magica di The Secret, ai quali va sempre bene tutto al primo colpo, perché c'hanno la giusta intenzione. Beati loro. Neppure mi sto riferendo a coloro che, sì, ci provano sempre e, sì, si lanciano in ogni sfida ed avventura, ma alla fine lasciano agli altri i conti da pagare. Sono gli avventurieri, sempre a caccia di opportunità straordinarie, che coinvolgono con grande carisma un sacco di gente nella loro impresa per poi -nella mala parata- abbandonare per primi la nave lasciando tutti nella merda. Non occorre andare lontano. Basti pensare a tutti quei gran geni che aprono imprese, raccolgono credito, fanno debiti e poi lasciano "chiodi" ovunque scappando in Brasile o -più semplicemente- facendo fallire l'impresa e riaprendola con partita IVA intestata al cugino della cognata. Non mi sto riferendo a questi, ma alla grande maggioranza  delle persone normali e semplici, che hanno piuttosto il problema di non provarci abbastanza, o non provarci mai.

Cosa vuol dire "provarci" allora? Significa paradossalmente -come dice il grande Igor Sibaldi- ascoltare fino in fondo questa voce, rovesciarla e comprendere che significa semplicemente "sei chiamato a qualcosa di più grande". Quindi osa. Provaci. Esponiti. Esci dalle sicurezze che ti tengono bloccato in una situazione senza sbocchi. Metti a rischio questa illusione di confort e inizia a vivere!

"Eh sì. Ma che fatica!". Lo so. Per arrivare a tanto ci vuole allenamento, iniziando dalle piccole cose. Hai deciso di andare a correre domani mattina? Quando ti alzerai non star lì ad ascoltare tutte le giustificazioni che riesci a produrre quando non hai voglia di fare una cosa: buttati fuori dal piumone e vai a correre. "Eh, ma non mi sento molto in forma e finirei per correre poco". Non importa: esci da quel cazzo di piumone e provaci.
Hai da sempre il desiderio di imparare a ballare il flamenco? Iscriviti ad un corso e provaci. "Eh, ma sono goffa e gli altri mi prenderanno in giro". Sarai goffa le prime due lezioni e poi migliorerai. E se non avrai imparato il flamenco, ti sarai divertita un sacco insieme a persone che condividono la tua stessa passione (e la stessa goffaggine).
"Mi piacerebbe un giorno scrivere un libro di poesie. Ne ho scritte un po' qua e un po' là, vorrei raccoglierle e pubblicarle". Raccoglile. Pubblicale. "Ma a chi possono interessare? Chi le leggerà?". Non è affare che ti interessi. Raccoglile e pubblicale. Fallo per te.
C'è una festa, ti stai divertendo e sei con persone che ti piacciono. Inizia il karaoke e tu hai un bella voce. Porta via il microfono a quello scellerato che si crede Toto Cotugno e provaci. Cosa succederà? Non lo puoi sapere. Certo che invece puoi sapere esattamente cosa succederà se non ci provi: nulla di nulla.

Sono piccoli esercizi, ma servono ad imparare una cosa importantissima: riuscire a fregarsene del giudizio degli altri. Perché è quello che ci frega, sia chiaro.
Per uno che prova a costruire una casa, ce ne sono 10 che guardano se i muri sono dritti e altrettanti di convinti che "se fossero loro a costruire, l'avrebbero fatta meglio". Ma domani uno avrà una casa, bella o brutta, gli altri non avranno che i loro inutili giudizi.
Come sempre, decidiamo noi da che parte stare.





domenica 5 gennaio 2014

Ti conosco mascherina

Sarsina è un piccolo centro romagnolo da molti conosciuto solo come uscita secondaria della E45 Orte-Ravenna. I più dotti, o quelli che vi sono capitati per caso cercando un posto dove mangiare diverso dall’autogrill (e avete capito che io appartengo alla seconda categoria, in barba ai miei studi classici), sanno che la cittadina ha dato i natali al grande commediografo latino Tito Maccio Plauto.

Tranquilli, non voglio parlare della commedia antica, se non per un singolo aspetto che peraltro si esalta proprio nella commedia plautina: l’uso delle maschere da parte degli attori.
Nel teatro antico (già presso i Greci) la maschera aveva una specifica funzione. Anzi, più d’una a onor del vero. Semplificando, serviva sia a caratterizzare e rendere riconoscibili i personaggi sia -secondariamente- ad amplificare la voce degli attori (dal momento che i teatri erano normalmente all’aperto e l’elettricità non era ancora stata scoperta). Praticamente, poiché nella commedia antica i “caratteri” erano relativamente pochi e ricorrenti, uno vedeva entrare in scena un attore con una determinata maschera e sapeva già attribuirvi un ruolo o “personaggio”; questo semplificava molto le cose in un tempo in cui l’analfabetismo era la norma e comunque sarebbe stato difficile far uscire dei titoli in sovrimpressione.

L’abbinamento del termine “persona” alle maschere usate nei teatri (se avete voglia di saperne di più, sul web trovate tutto e il contrario di tutto sul tema) mi ha sempre fatto pensare. Un po’ perché la nostra nozione di “persona” è influenzata dal pensiero cristiano ed è quindi ricca di connotazioni divine (trinità) o comunque positive, un po’ perché -per ragioni analoghe- abbiamo interiorizzato la contrapposizione tra “persona” e “individuo”, attribuendo alla prima una valenza di maggiore autenticità. Siamo figli del nostro tempo e quindi va bene così, ma come sempre può essere utile rimestare un po’ i vecchi significati e le etimologie annesse, ché se ne ricava sempre qualcosa di utile.

Dando per buono questo legame del termine “persona” con la maschera teatrale, va da sé che il primo termine si trascina dietro anche i rimandi simbolici dell’altro. E la maschera, signori e signore, di valenze simboliche ne ha a bizzeffe. Innanzitutto ha sempre avuto a che fare con l’oscuro, con il buio che vela e cela gli oggetti alla vista. E dalla notte alla morte -si sa- il passo è breve, per cui in molte civiltà la maschera è legata ai riti funebri e alla sepoltura (chi non ricorda la maschera di Agamennone nei libri di storia? O i volti dei faraoni nei sarcofaghi egizi?).
Ma oltre a questi riferimenti oscuri (o forse proprio grazie ad essi), la maschera ha sempre raffigurato anche la manifestazione delle divinità e degli spiriti; quindi l’uomo che indossa la maschera “personifica” il volto potente e tremendo della divinità e ne riceve poteri e attributi. Così come la maschera della divinità o degli spiriti maligni, pur inerme e deposta, conserva un suo sinistro potere per il pensiero superstizioso o proto-religioso.

Ma se anche torniamo al teatro antico -rilassandoci un po’ dopo queste visioni vagamente dark- potremmo immaginare che lo stesso attore indossasse nel corso dello spettacolo più maschere e quindi “im-personasse” più soggetti e -si noti bene- sia femminili che maschili (dal momento che gli attori erano sempre e solo maschi, che si esibivano in penosi o virtuosi falsetti nelle parti da donna). E poi, alla fine dello spettacolo, probabilmente gli attori si toglievano finalmente le maschere per raccogliere gli applausi del pubblico, rivelando magari i loro volti trasformati... in una maschera di sudore! 

Se ora -pur senza saper né leggere né scrivere, in quanto filosofi non praticanti- proviamo semplicemente a mettere insieme tutte le valenze della maschera-persona che abbiamo appena citato, una cosa appare evidente: pur essendo una cosa “esteriore” e “superficiale”, la maschera da un lato nasconde e dall’altro rivela qualcosa di più profondo, potente, autentico e inquietante. E’ un velo che però ha già in sé il mistero di quello che -per altri versi- cerca di celare: è come se l’essenza non potesse darsi e rendersi visibile se non nella forma dell’apparenza [sì, mi sono lasciato prendere, giuro che non lo faccio più]. 
Cerco di spiegarmi meglio. Ognuno di noi ha più maschere, più ruoli e -con buona pace degli psicoterapeuti- più personalità. Ne cambiamo una decina al giorno e quando ci troviamo con persone che appartengono a teatri diversi della nostra vita siamo in difficoltà, perché ci accorgiamo che dovremmo indossare contemporaneamente più maschere.

Un po’ alla volta però, crescendo e maturando, impariamo a semplificare le nostre maschere, a raggrupparle prima e poi ad unificarle. Finché a forza di adattarla e farla nostra, la maschera sarà finalmente espressione luminosa di quello che siamo dentro e che in nessun modo potrebbe manifestarsi, se non proprio attraverso la “personalità” che abbiamo così faticosamente plasmato.

Eppoi lo ha detto Nietzsche, mica io: “tutto ciò che è profondo ama la maschera”. 

Quanto a noi, la prossima volta, prima di dire “ti conosco mascherina” ci penseremo un po’ su.