Lo zio è il padre dei vizi.
I Libri di Lettura delle elementari spiegavano le cose attraverso i racconti, o almeno era così ai miei tempi. Nel caso specifico si raccontava di un alunno distratto che - omettendo un apostrofo - sostituiva il povero zio all’ozio nel poco invidiabile ruolo di padre dei vizi. L’obiettivo era quello di far capire l’importanza di questo grafema, ma io ho sempre sospettato che il ragazzino in realtà tifasse per il dolce far niente e non se la sentisse di imputare ad una in-attività così piacevole l’origine di tutte le depravazioni umane.
Anche per la maggiore delle mie figlie, che a quattordici anni ancora sa dire “il re è nudo!”, una domenica di pioggia passata senza togliersi il pigiama fino a sera è una giornata indimenticabile. Sonnecchiare, leggere, guardare qualcosa alla TV, ridere, chiaccherare senza alcuna preoccupazione di scopo o utilità. Questo è l’ozio.
Io non ci vado gran d’accordo con l’ozio, almeno da qualche anno a questa parte. L’ho bandito dai miei pensieri e dai miei programmi: solo “facendo cose” e “andando in posti” riesco a sentirmi bene. Certo, essere tonico e tenersi in forma, usare come forma di recupero il variare delle attività, non abbandonarsi all’apatia, sono tutte condizioni positive e da coltivare con costanza. Il problema, come sempre, nasce quando non riusciamo a fare diversamente, per cui ci inventiamo ogni cosa pur di non passare un week end a casa e se arriva il mercoledì e ancora non abbiamo un piano per il fine settimana cominciamo a smanettare sul web per vedere almeno che tempo farà.
Poi per qualche motivo succede che le cose cambiano. Se sei fortunato, nulla di drammatico ti costringe a farlo. Semplicemente ti lanci in una sfida nuova che sai cambierà i tuoi equilibri, parti per un viaggio (simbolico o reale) con la segreta consapevolezza che indietro non si torna, decidi di inserire qualche ingrediente di rottura nella tua quotidiana (per quanto varia) continuità. Quello che ti capita in un primo momento, quando affronti questa totale estraneità, l’ho già descritto in un altro post. Il bello è quello che accade dopo.
Ti aspetti che tante cose si smuovano, che si aprano scenari inattesi. Insomma, sei lì che guardi cosa succede. E non succede un cazzo.
Allora cominci a farti domande (inevitabile per uno come me) e le risposte non arrivano. Ti vengono dubbi (normale per uno come me) e l’umore stagna nei piani bassi. Finché non ti arrendi e comprendi che non c’è altro da fare che aspettare e concederti una pausa. Da tutto. Questo è il momento in cui entra in scena l’ozio: ti riposi e non fai nulla di speciale se non vivere. Scarichi, decomprimi, rilassi, abbandoni, attendi.
Se ti opponi e ti ostini a cercare “nuove cose da fare” ti ritrovi presto al punto di partenza, per cui la cosa più saggia è interrompere l’azione. E’ come se il corso delle cose, per modificare il proprio ritmo e la direzione, avesse bisogno di una fase di limbo in-utile. Quanto durerà? Non lo sai. Però cominci a capire che è semplicemente necessario accogliere questo momento per quello che è: un tempo vuoto eppure fecondo.
Staremo a vedere cosa germoglierà in questo terreno che in superficie sembra immobile, ma che in profondità fermenta e preme.
Odio ammetterlo, ma per andare avanti talvolta è necessario fermarsi e stare in compagnia dello zio fannullone. Almeno per un po’.
Credo che quel tempo che tu definisci ozio sia il tempo in cui si sta a "nudo" con se stessi,con i propri pensieri, con ciò che frulla nella nstra mente e che il fare fa in qualche modo tacere...
RispondiEliminaMa penso che quel senso di vuoto,o chiamalo anche apatia, che fa paura e che inchioda all'inutilità , sia la nostra voce interiore che ci chiede "a che punto sei?" ...
Conosco l'ozio e lo temo...perché per me é fonte di pensieri alle volte dolorosi o ingestibili...ma se ho il coraggio di guardare con verità il mio cuore so che mi sta parlando, che sta facendo emergere quella parte di me che nella corsa quotidiana non ho voluto ascoltare ...