martedì 29 dicembre 2015

La statuina che porta le uova. Natale 2015

A casa mia, quando ero bambino, si faceva il presepe.
Non era una scelta politica: semplicemente il mondo era diviso tra chi faceva l’albero e chi faceva il presepe, non c’era niente da spiegare. E a portare i regali, almeno a me e alle mie sorelle, era Gesù bambino.

Il rito della preparazione cominciava con una fase esterna: la ricerca del muschio. Quello dell’anno prima si era seccato e non si poteva proprio usare, così si usciva e si andava alla ricerca del nuovo. Poi si saliva in soffitta a prendere le scatole con tutto l’armamentario e si cominciava la grande opera, che prevedeva innanzitutto la creazione delle infrastrutture: pezzi di legno disposti ad arte per creare colline e avvallamenti, copertura con fondo di carta mimetica spiegazzata per il ripetuto uso e delicata posa della volta celeste (sempre carta, ma blu con le stelline). La posizione della mangiatoia era nell’angolo alto a destra, non chiedetemi perché, mentre laghetto di specchio e torrente di filo argentato non potevano mancare, perché tra i vari accessori c’era anche un ponticello di legno che ci piaceva troppo e andava assolutamente piazzato da qualche parte. Giù il muschio, posate le casupole, disposte le statuine, le pecore e l’angioletto, composta la Sacra Famiglia col bue e l’asinello. Niente Gesù bambino che arrivava solo all’ultimo momento, come tutte le star.

C’è una cosa fondamentale da capire riguardo le statuine: sono sempre una diversa dall’altra. Mai visto un presepe con due statuine uguali. Noi ne avevamo poche, ma contenevano una discreta varietà: c’erano ovviamente più pastori, ma uno solo aveva l’agnello sulle spalle, c’era l’uomo con le oche vicino alla fontana, il vecchio con la pipa e il giaccone sulle spalle, pure le pecore erano una diversa dall’altra. Ricordo che avevamo anche la statuina di un uomo di colore, fermo nel gesto di chiamare gli altri con la mano aperta vicino alla bocca, a cui corrispondeva quella di un giovane che la mano aveva vicino all’orecchio, ad ascoltare. E poi c’era lei: la donna che portava nel grembiule le uova.
Sarà che io son sempre stato maldestro, ma mi chiedevo come faceva ‘sta donnina a camminare portando tutte quelle uova in grembo, senza romperle e sorridendo pure. Ma soprattutto: cosa ne faceva Gesù bambino appena nato di tutte quelle uova? A dire il vero (ma non potevo confessarlo) mi chiedevo anche che gliene poteva fregare di oro, incenso e mirra.

Oggi ho pensato al presepe (sì, va bene, mi sono commosso) e forse ho capito solo ora cosa rappresenta veramente: siamo noi, è la nostra vita. Dentro c’è di tutto. Ci sono cose belle e cose meno belle, cose un po’ rotte, tante cose vecchie e qualche pezzo nuovo che si è aggiunto. Come le statuine, ognuno di noi arriva alla mangiatoia con quello che ha e semplicemente lo offre, inginocchiandosi di fronte a ciò che vuole adorare: nel presepe è Gesù ma potrebbe essere qualcuno o qualcos’altro, purché capace di dare un senso e trasformare tutto in qualcosa di prezioso per noi e per gli altri.

E quindi, la statuina che porta le uova che c’entra? Lei era bella.

lunedì 24 agosto 2015

Le placche continentali, il centro del mondo e il canto del Fado. Riflessioni di fine viaggio.

Volo Lisbona - Venezia - 24 Agosto 2015

Dico a me stesso che volando a più di 10 mila metri dal suolo le idee si fanno più  chiare, in realtà due ore e mezza in qualche modo bisogna farsele passare, visto che ormai le riviste di volo le ho lette sia in inglese che in portoghese e l'unico libro al seguito è finito che eravamo ancora a Pico. Allora scrivo.

I pensieri sono tanti e i ricordi tendono già a sovrapporsi in questo viaggio di 13 giorni (durata effettiva, un mese durata percepita!). Come sempre mi affiderò alle suggestioni, per cercare di dare unità alle esperienze pur lasciando tante cose fuori dai bordi. Frammenti che non necessitano di essere assemblati e godono di vita propria.

La prima suggestione riguarda le Azzorre, la seconda Lisbona.

Sull'origine vulcanica di queste splendide isole oceaniche è già stato detto tutto. Quello che invece ho scoperto, prendendomi la briga di leggere uno dei tanti pannelli informativi distribuiti nei centri di interesse naturalistico, è che si trovano nella congiunzione delle tre grandi placche continentali: quella africana, quella euro-asiatica e quella americana. Dovrei controllare e in volo non si può, però mi viene da pensare che sia l'unico punto della crosta terrestre in cui questo incrocio è possibile. A meno che l'Australia non faccia placca a parte, le nove isole dell'arcipelago sono distribuite in tutte e tre le grandi placche continentali. Non è grandioso? Non è  bello pensare che la pacifica convivenza di tanta diversità in questi luoghi altro non sia che il frutto della saldatura lavica di tutte le geografie naturali e culturali? Magma proveniente dalle profondità del pianeta è uscito da questo lasco e secolo dopo secolo, millennio dopo millennio, ha raggiunto la superficie creando l'arcipelago. Poi ha scoreggiato un po' nella storia più recente (ok, uno di questi peti a spruzzo ha pure generato Pico) formando i famosi "Mosterios" ma i giochi per questa nostra era sembrano fatti. Qui è il vero ombelico del mondo, caro Lorenzo. Qui è  dove le mucche pascolano sui pendii di un vulcano guardando il mare e abbeverandosi ad un lago pluviale, prendendo pioggia, sole e vento nello stesso giorno. Qui è dove puoi immergerti in una calda sorgente solforosa e subito dopo fare il bagno nel freddo oceano. Qui è dove si comprano i Pick up nuovi,  gli si smonta il cassone e lo si sostituisce con uno di ferro e legno fatto come una volta. Ok, la smetto con questa storia!
Magari piano piano questa allegra diversità imparerà a convivere su tutte le grandi placche della terra. Chissà.

A Lisbona, nel quartiere di Alfama, la parola più  pronunciata, scritta e cantata è "Fado". Cercate su google le informazioni attendibili su questa grande tradizione di canto popolare: io sono a caccia di suggestioni.
Ammetto che avevo sottovalutato il fenomeno. Fortunata c'aveva provato in due o tre occasioni a propormi la cena accompagnata dalle chitarre e dal canto del Fado, ma vedendo il mio occhio spento non aveva insistito. Poi alla fine l'ultima sera, di rientro da una intensa giornata al centro culturale di Belèm, siamo tornati nell'antico quartiere e abbiamo preso un tavolo alla Taverna Esquina. "No queijo e no manteiga, ok paõ" (rituale necessario per non vedersi addebitato l'antipastino di formaggio burro e olive che ti portano senza che glielo chiedi, facendo lasciare il pane, che si paga meno di un coperto da noi): fin qui tutto normale. Camerieri indaffarati, tavolini incastrati ovunque, facce di tutte le nazionalità e gli americani capaci di bere aranciata anche col bacalaõ.
Ad un certo punto la scena cambia. Si spengono le luci in sala e si chiede silenzio: è il momento sacro del Fado. Due attempati maestri imbracciano uno la chitarra tradizionale portoghese, l'altro (presentato come "il professore", vera incarnazione della saudade) la chitarra classica. Entra in scena la cantante e inizia la magia. Nessuno fiata (e se uno ci prova i camerieri intervengono subito con cortese fermezza). Applausi e tocca ad un'altra cantante (ma allora sono due!): 82 anni, più frizzante di un prosecco. Sono note di malinconia, di amori infelici e ferite mai chiuse. Ma il finale è sempre orgoglio puro e tanta forza. Il giovane alto e volutamente scavato che aveva introdotto la serata prende posto davanti ai maestri e inizia il suo canto (e siamo a tre) ma qui arriva il capolavoro: un'altra voce interviene e un'altra ancora. Sono i camerieri, che continuando il loro lavoro partecipano al canto che ormai è teatro vero.
Applausi sinceri e qualche lacrima, anche in  chi non sa il portoghese. Anche in chi mi stava davanti e non mi aveva detto quanto amasse tutto ciò.
Non mi interessa parlare del Fado come espressione artistica, non saprei neanche da dove cominciare. Ma in questo canto ho visto davvero l'anima di un popolo che la storia ha voluto tra i grandi conquistatori e poi ha relegato per secoli al ruolo di comprimario povero. Quanta passione, quanta professionalità e quanta consapevolezza in questi artisti sconosciuti, celebri per una sera davanti ad un pubblico che forse non li ascolterà  mai più. Dignità, orgoglio e forza che si tramandano da generazioni e dicono al mondo: "noi siamo arrivati per primi alle Indie via mare, noi per primi abbiamo circumnavigato la terra. A noi non fa paura l'oceano, figurarsi la povertà".

Questo, signori miei, è il Portogallo.

Iniziamo a scendere: Venezia è vicina.

venerdì 21 agosto 2015

Cosa c'è alle Azzorre quando l'anticiclone se ne va a spasso - 3/b

Terza tappa: Saõ Miguel - 17-21 agosto - parte seconda e ultima

La diversità nasce dalla varietà e ai suoi estremi produce contrasto. Le Azzorre sono belle perché sono varie: passatemi la parafrasi banale ma non riesco in altro modo a sintetizzare l'essenza di questi luoghi se non appunto attraverso la varietà e i contrasti.
Ieri mattina, al Miradouro do Castelo Branco, girando le spalle all'oceano sembrava di essere sull'altopiano di Asiago, con tanto di mucche, ceppi marmorei e stradine sterrate. Però a sinistra si vedeva il lago di Furnes e per tutto il resto il panorama era riempito dal mare. Vicino al lago abbiamo trovato sorgenti termali di acqua ferrosa, una delle quali è all'interno di un meraviglioso parco botanico che ospitava specie vegetali provenienti da tutto il mondo, che hanno trovato un habitat perfetto in questo magico blend di acqua, fuoco, roccia e vento.
Tutto questo in pochi chilometri quadrati: lo scenario cambia così frequentemente che sembra di fare zapping.

Molti turisti vengono qui per fare trekking (o hiking, come si dice in tutto il resto del mondo). In realtà, per noi che abbiamo le Dolomiti vicine, l'idea di camminare 4 ore in mezzo alle foglie non ci fa impazzire. Il vulcano di Pico era un'altra cosa e andava fatta, ma per il resto meglio immergersi in questo caleidoscopio di esperienze e passare allegramente dal costume alla felpa e viceversa. La costa -oltre a spiagge di sabbia nera- offre molte piscine naturali, dove l'intervento umano (più o meno evidente ) rende possibile la balneazione nelle limpide acque di queste baie, altrimenti costantemente sbatacchiate dall'impeto delle onde.

Altro universo di forme e colori si apre non appena indossi la maschera da sub e metti semplicemente la testa sotto la superficie dell'acqua. Anche nel mondo dei pesci trionfa la varietà e con un po' di pazienza e un minimo di apnea si possono vedere cose interessanti e diverse da luogo a luogo. Anche negli 8 kg di bagaglio a mano delle compagnie aeree portoghesi la maschera ci deve stare. È un consiglio; piuttosto lasciate a casa gli scarponi, che fa troppo ridere vedere i turisti arrivare in spiaggia bardati da alta montagna, con gli zaini da 55 litri pieni di chissà che.

Ho accennato alle acque termali che sgorgano dal vulcano e mi tocca ripetermi: a seconda di dove vai, sono diverse. Ci siamo immersi in riva al mare a Ponta da Ferraria, dove le limpide acque dell'oceano vengono riscaldate da vapori caldi che sgorgano dal sottosuolo, ma anche nelle vasche tiepide di Caldera Vehla immerse in una vegetazione equatoriale e infine in quelle bollenti e gialle di ferro e odorose di zolfo a Furnes.
Ogni volta è stata un'esperienza diversa, tipo uscire ricoperto di polvere giallo rossa dalla grande vasca termale del Parco Terra Nostra e lottare con il filo d'acqua di una doccia stitica per non ritrovarti, una volta asciutto, "placcato-banda".

E visto che ormai la diversità è stata assunta a fil rouge di questo diario azoriano, compio una virata e torno per un attimo a Fajal, l'isola azzurra che ci ha dato il benvenuto ormai dieci giorni fa.
Durante lo scooter-day ci eravamo immersi nel verde sorprendente dei suoi pascoli bordati di ortensie, trovando vegetazione perfino nel grande cratere che sta nella sommità dell'isola (garantisco che non è quello che ti aspetti pensando ad un vulcano dormiente). Nel pomeriggio, io ormai padrone del mezzo a due ruote e Fortu brava a fidarsi, siamo discesi fino al Capelinho, un'area generata dall'eruzione del 1956 che ha cambiato la fisionomia di questa parte dell'isola. Sembrava Marte. Graniglia arida, rocce rosse a picco sul mare inospitali per quasi ogni specie vegetale. Camminare, alzando un pulverazzo che neanche Terance Hill nella scena iniziale di "Continuavano a chiamarlo Trinità", verso l'antico faro costruito per resistere all'impero frontale del mare, che ha saputo reggere orgoglioso anche all'attacco di spalle del vulcano. Sfondato nelle finestre e mezzo sepolto ma in piedi. Scene di guerra, divenute oggi museo.

Ecco, con questa manovra ho simbolicamente chiuso il cerchio di questo meraviglioso viaggio nel cuore dell'atlantico, sperando di aver ispirato in qualcuno il desiderio di ripercorrere i nostri passi o di farne altri e diversi (appunto): in fondo ci sono altre 6 isole a disposizione.

Non venite tutti in un colpo però, che la diversità ha bisogno di spazio per esprimersi, lontano dalla folla e vicino al cuore delle persone che la cercano.

giovedì 20 agosto 2015

Cosa c'è alle Azzorre quando l'anticiclone se ne va a spasso - 3/a

Terza tappa: Saõ Miguel - 17-21 agosto - parte prima

Cambiare posto ogni tre giorni produce un leggero stress. Stiamo osservando il fenomeno, eh... lungi da me la minima ombra di scazzo lamentoso.
Anche Pico ci piaceva, così  selvatica e rarefatta. E la piccola casa di lava nera in mezzo ai campi e fronte all'oceano era... Ecco.
Chissà come sarà la nostra sistemazione a Saõ Miguel: è la domanda continui a fartela soprattutto quando arrivi che piove e neppure il tassista sa dove sia il posto dove dobbiamo andare. Con la pioggia è  grigio anche il paradiso terrestre, e la Quinta dove siamo ospiti è un incrocio buio tra un museo è l'odore della soffitta della nonna in campagna. È una specie di façenda sudamericana, con le stanze distribuite nelle varie casette della magione. Poi vediamo la piscina, con la veranda e la cucina: beh... Entriamo nella stanza: mah... È  un po', come dire, pittoresca .
Dobbiamo andare a fare la spesa: viaggiando in aereo non potevamo portare nulla; è già tardi e vicino c'è  solo un piccolo negozio. La macchina a noleggio, ci devi prendere un po' la mano e quella storia di controllare i graffietti prima di darti le chiavi ti ha messo un po' sul chivalà. E poi pioviggina... Ecco. Questa piccola sequenza di leggeri disagi produce la reazione più normale negli esseri viventi: lo stress da adattamento.

Non lo vuoi? Allora vai in vacanza, non viaggiare. Se lo accetti, quasi sempre la realtà supererà le aspettative e sarai felice di aver fatto nuovamente le valige. Ovvio. In quel "quasi sempre" c'è tutto un mondo di "se" e di "ma".
A noi è andata bene. Il mattino successivo,  col sole che baciava ogni cosa (e anche quelli belli come noi) e una prima colazione da veri signori di una telenovela messicana, ci aspettava un'isola piena di straordinarie bellezze.

Saõ Miguel è la più  grande e la più  turistica delle isole Azzorre, lo si capisce subito dal numero di auto parcheggiate a cacchio in prossimità di ogni Miradouro, ma la varietà di paesaggi ed esperienze che offre è  tale da rendere tollerabile perfino la presenza di altri turisti italiani. I locali dal canto loro si distinguono per i Pick up cassonati in legno (il mistero delle Azzorre), per le auto tamarre (o più vecchiotte delle utilitarie a noleggio) e per il loro parcheggiare in mezzo alla strada per fare i comodacci loro.

In una giornata siamo passati dalla visita a Sete Cidades, uno dei grandi laghi che si sono formati nei diversi crateri dell'isola, alla passeggiata in mezzo ai boschi dell'altura fino ai tuffi nelle piscine naturali di Mosterios e alle terme di Ponta da Feraria. Niente fretta ma niente monotonia. C'è un programma di massima (ci pensa Fortu, come avrete ormai capito): se un posto ci piace ci fermiamo, quando lo abbiamo gustato abbastanza risaliamo in macchina e via. Beviamo nei bar una birra o un caffè, il resto è tutto nei nostri micro zaini. Nel bagagliaio della Twingo ci sono i teli mare, gli scarponi, la giacca a vento, la maschera da sub e le infradito. A seconda di dove siamo si toglie e si mette. E se scorgiamo una meta fuori itinerario, cambiamo idea in un biz, mettiamo la freccia e andiamo a vedere. Qualche volta ne vale la pena, altre no. 

Ci piace questo modo di viaggiare, anche se la sera siamo felici di rincasare, per concederci una cenetta di pesce sfruttando il barbecue a bordo piscina. Il vino bianco è quello di Pico. Qui a Saõ Miguel fanno il liquore di ananas, ma non è cosa.

mercoledì 19 agosto 2015

Cosa c'è alle Azzorre quando l'anticiclone se ne va a spasso - 2c

Seconda tappa: Pico - 14-17 agosto - parte terza

Tempo così così. Insomma, alle Azzorre è  raro che il meteo rimanga uguale tutto il giorno ma la mattina si annunciava decisamente nebbiosa. Dopo la giornata del vulcano, il programma prevedeva un rilassante tour lungo le coste dell'isola e un passaggio sugli altipiani per vedere i laghetti vulcanici (Lagoas).

Questo diario non è  una cronaca (che è  un po' come dire "questa casa non è  un albergo") per cui vi risparmio l'elenco dei luoghi e delle cose viste (per quello c'è  Facebook e per il resto aiutatevi con la fantasia).
Quello che mi piacerebbe trasmettere di questa  ultima giornata nella selvatica isola di Pico è la fortissima senzazione del contrasto che si prova visitando le coste di nerissima e tormentata lava. È il contrasto magnificamente dipinto nelle case locali, nere di sasso e bianche di calce. Qui la vita è equilibrio instabile tra forze dalla potenza inaudita: da un lato l'oceano, dall'altra la terra che, divenuta rabbioso fuoco, mangia spazio all'immenso blu, che quando può se lo riprende, oppure invia il vento a sferzare ed erodere. Implacabile.
Nella zona dell'isola dove è avvenuta la più recente eruzione (a metà del '700), con il mare in tempesta, tutto questo è  ancora più evidente: l'acqua bianca di spuma vince il nero degli scogli lavici e si intrufola in ogni dove, creando gallerie sotterranee ed emergendo a monte.

E l'uomo? Si adatta, come sempre. Usa la terra fertile, alleva bestiame, spera che il vulcano non voglia vendicarsi del mare e prega. Ci sono chiese dappertutto: normale in un luogo sperso, in balia degli elementi. Per lunghi decenni ha anche sostenuto la sua economia cacciando i Capidogli,  che oggi continuano a svolgere il loro ruolo facendosi vedere dai turisti del whale watching e consentendo agli operatori locali di offrire qualcosa di quasi unico.

Quanto ai Lagoas, ci abbiamo provato due volte (anche il mattino seguente) ma nulla: immersi nella nebbia li abbiamo solo intuiti, concentrati come eravamo a non perdere di vista la stradina che attraversa da parte a parte l'isola. Quello è  il regno delle mucche felici e dei mandriani,  non degli intrusi. Specie se viaggiano in una Nissan Primera bianca, con l'alettone e la marmitta modificata.

Domani si piglia il bimotore e si vola a Sao Miguel, la terza tappa.

martedì 18 agosto 2015

Cosa c'è alle Azzorre quando l'anticiclone se ne va a spasso - 2b

Seconda tappa: Pico - 14 -17 agosto - parte seconda

Un grande cono a base larga, con un cornetto in cima (o un capezzolo, a seconda dei gusti). Questo è il vulcano di Pico da ovunque lo si guardi. Per arrivarci basta seguire le indicazioni per la "montanha", finché a 1200 metri trovi il nuovo "campo base", una struttura ben organizzata dove tutte le persone che vogliono salire in cima al vulcano (loro dicono climbing,  ma mi sembra esagerato per un 1° grado seppur sdrucciolevole) si devono registrare, ricevono un GPS numerato,  compilano un po' di moduli e si vedono un filmino terroristico sui pericoli dell'andar per monti e crateri.

Ora, da queste parti i sentieri li tracciano cosi: una linea dritta tra il punto di partenza e il punto di arrivo, con il minimo delle deviazioni possibile. 45 paletti numerati a marcare il percorso obbligato (pena pagare 1000 euro di elisoccorso,  se facendo il pirla ti fai male fuori traccia) e 1100 metri di dislivello verticale, con le mani spesso a terra e il collo tostato dal sole. Bene per noi che abbiamo trovato una giornata limpida, perché il più delle volte la montanha è incappucciata e non si vede una mazza nè suprasutta.

Noi siam partiti con calma, muovendo i primi passi nel sentiero poco dopo le 9. Dopo mezz'ora di salita abbiamo cominciato a vedere gente che scendeva. Ma come? Se ci si mette circa 3 ore a salire, questi a che ora son partiti? La domanda è  apparsa contemporaneamente nelle nostre due testoline, mute per la concentrazione (e lo sforzo dai).  Are you italians? Chiediamo alla prima coppia che vediamo vestita decentemente. Sì, beccati. E spiegati. Il trend dei gruppi organizzati è quello di partire di notte con la frontale e il sacco a pelo e aspettare l'alba dentro al cratere, per poi scendere come zombie tra le colate laviche impietrite.

Paletto 22. Siamo a metà e io comincio a sparare la mia previsione: 2 ore e mezza a salire e altrettanto a scendere (al Campo Base danno come stima 3 ore a salire e un ora in più  a scendere,  per via che si rischia di finire col culo a terra). Si va su con calma ma a passo costante e senza soste, superando le comitive perché Pozzan non sopporta di avere file davanti (e Fortunata in questi casi non sopporta Pozzan).
Paletto 40. Dai che è fatta. L'ultimo sforzo e davanti a noi si apre il grande cratere ancora nerastro. 45!

Ora resta solo l'ultimo tratto, dove serve davvero arrampicottare: Fortunata decide che non è cosa di rischiare per alzarsi di 50 metri e io vado, accostandomi ad una guida ultra senior che mi dà due dritte sul percorso migliore da seguire. Qui la regola è una e semplice: "la roccia è  amica, il terriccio no". E se scivoli sul terriccio e cadi sulla roccia vulcanica lo capisci da solo il perché.

In cima, in pochi metri quadri, ci sono 15 persone e una di loro è  Silvia Zanetti, del CAI di Vicenza. Non si può  davvero farla franca, mai!
Il panorama lascia senza respiro e ripaga di ogni sforzo. Da lassù  l'oceano sembra ancora più  infinito.
Foto di rito e poi giù in discesa, sempre dritti, sempre ripidi.

Alla fine la mia previsione sui tempi si è  rivelata giusta e questo ci ha permesso di scendere a valle e avere il tempo per un bel bagno nelle piscine salate di Sao Roque, con l'immancabile copa di vino bianco ghiacciato.

E la diversità dove la mettiamo? In ogni passo, in ogni cambio di vegetazione, in ogni piega della roccia, polenta solidificata nel momento stesso in cui viene versata, in ogni direzione dove si posa lo sguardo. Ma in un vulcano la diversità non è  più solo discontinuità, perché  assume i contorni spietati della lotta. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.

E noi? Una giornata così memorabile s'ha da chiudere in bellezza: ci penserà il cuoco del ristorante Canto do Paco.

(To be continued)

lunedì 17 agosto 2015

Cosa c'è alle Azzorre quando l'anticiclone se ne va a spasso - 2/a

Seconda tappa: Pico - 14 -17 agosto - parte prima

Basterebbero il mare infinito visto da sopra le nuvole, in vetta al vulcano di Pico, il nero assoluto dei muretti a secco di pietra lavica e l'immagine di due truzzi che girano per l'isola con una Nissan Primera bianca dotata di alettone, coi finestrini abbassati e gli Abba a tutto volume.
Io mi fermerei anche qui ma Fortunata ha osservato che ultimamente tendo ad essere troppo sintetico e sbrigativo (il che, detto da una donna, non suona mai come un complimento).

Allora proviamo a descrivere questi giorni iniziando da una parola: diversità.
Lasciando Faial avevamo già un po' di nostalgia e non sapevamo se la nuova isola ci sarebbe piaciuta come la prima. In soli tre giorni avevamo già individuato alcuni punti di riferimento, piccole certezze a cui subito ci si affeziona: la "padaria" dove fare colazione, la spiaggia giusta, il ristorante semi nascosto che sa sorprenderti, il posto fico per gli aperitivi low cost.
E invece si rimette tutto nel trolley (8 kg per 13 giorni: operazione alquanto breve), si sale sul traghetto e via.

Arrivati a Pico, porto di Madalena, per la prima volta nella mia vita c'era ad aspettarci una persona con il classico foglio bianco con  scritto il tuo nome (il nome era quello di Fortunata ma non importa, non stiamo qui a sottilizzare). Era Monica, titolare del B&B che ci avrebbe ospitati nei tre giorni a seguire; ci ha caricati sul suo Pick up e ci ha condotti nel piccolo centro di Santo Amaro, in una casetta circondata di granturco in fronte al mare.  Monica è architetto e lavora per gli uffici dell'UNESCO che gestiscono gli heritage dell'isola. Ci ha spiegato in lungo e in largo le peculiarità di Pico, prodigandosi in consigli e informazioni, ma io avevo una sola domanda da sottoporle. Avevo La domanda: "Perché sostituite i cassoni originali dei Pick up con questi modelli antiquati in ferro e legno?". La risposta è stata disarmante per la sua semplicità : "perché  vanno meglio". Il mistero resta ancora insoluto.

"Però, Pozzan, il tema era la diversità e non capisco dove vuoi andare a parare...".

Grazie per l'osservazione, caro lettore immaginario. Ti accontento subito.

"Diversità" è la parola che meglio descrive l'esperienza del contatto con queste isole. Sono "altro" da ciò che siamo abituati a vedere per un sacco di motivi: il loro essere lontanissime dalla terraferma e l'origine vulcanica hanno permesso la creazione di un ecosistema unico e irripetibile, dove prosperano varietà vegetali spesso endemiche, si accasano uccelli dal verso strano ma al tempo stesso vivono alla grande le mucche, che si beano di pascoli grassi anche se ripidi.

La diversità più interessante è tuttavia quella che si vive all'interno di questo piccolo universo: tra un'isola e l'altra, o nella medesima terra. Il formaggio di Pico non è il formaggio di Fajal e quest'ultimo ha poco a che vedere con un formaggio stagionato di Sao Jorge. E la nebbia di stamattina tra un'ora sarà sole cocente e potrebbe diventare pioggia fina o vento. Dipende.
Diversità suona qui come discontinuità e sorpresa. Per cui seguendo le indicazioni per le "piscinas" puoi arrivare ad una struttura curata, con vasche di acqua oceanica, docce e servizi puliti ed efficienti (intendo con le salviette di carta e il sapone sempre disponibili) e scoprire che è tutto gratis, a disposizione dei locali e degli ospiti.
Allora ti puoi scialare ordinando una "copa de vino branco" di Pico con un panino al tonno e spendere meno che per un prosecco a casa nostra. E pazienza se non ci sono le patatine.
[...]
(to be continued)

giovedì 13 agosto 2015

Cosa c'è alle Azzorre quando l'anticiclone se ne va a spasso?

Prima tappa: Isola di Faial - 11-14 agosto 2015

Le Azzorre ci hanno accolto a schiaffi di vento in faccia. Reduci da settimane di caldo torrido in terra Veneta, siamo atterrati ad Horta che il pile usciva da solo dal trolley, tanto lo avevamo pensato. 

Onde cattive sugli scogli e vento che sibilava teso tra le corde delle barche a vela ondeggianti sul porto del piccolo centro, tappa obbligata per tutti i navigatori che affrontano l'Atlantico nel loro peregrinare attorno al globo (usanza vuole che lascino memoria del loro passaggio dipingendo il pontile in cemento col nome della barca e dei membri dell'equipaggio). Imbacuccati a più strati, ci siamo ostinati a fare una passeggiata serale per poi finire chiusi nella Taberna Porto Pim a contendersi i pochi posti liberi nei tavoloni di legno. Abbiamo sopportato  la sbrigativa lentezza del servizio, per prolungare il più  possibile la permanenza al caldo delle pareti perlinate, poi siamo tornati fuori a farci spettinare (nel mio caso, in senso ovviamente  figurato) finendo per rintanarci nella prima bettola aperta con la scusa di un gelato confezionato da spartire in due. Puzza di chiuso e troppe teste piegate sui gratta e vinci: meglio tornare al nostro B&B.

La mattina successiva ci siamo alzati che era Irlanda. Davvero ci è venuto il dubbio di aver sbagliato vacanza. La colazione dal fornaio "Nova vida" (che diventerà  tappa fissa anche nei giorni a venire), la spesa per mettere nello zaino due panini, il tempo di noleggiare lo scooter e già Il tempo volgeva al bello.
Irlanda dicevo, ma anche Svizzera: prati verdi quadrettati da siepi indigene, ovunque ortensie fiorite e tante mucche. Così tante che prima o poi ti capita di fotografarne una al pascolo con lo sfondo dell'oceano:  vi garantisco che la testa va in corto, perché il file "bovino" e il file "mare" non sono nella stessa directory.

Ma parliamo dello scooter. Un 50ino della Yamaha che però ci ha tirato su in due fino ai 1000 metri e più della "Caldera", la grande bocca del vulcano che (assieme ad altre minori) ha dato origine all'isola. Il tema a dire il vero non era il mezzo: ero io, che non guidavo un motorino da quando avevo 17 anni (ed era un Testi, poco più di una bicicletta insomma). Partenza in salitissima e sul selciato, con la faccia perplessa del noleggiatore che diceva tutto e pensava "addio". Fortunata, che si fidava ma anche no, ad aspettarmi in cima alla "pontara" per decidere con calma se il gioco valeva la candela.
Ma con tutta questa premessa, Pozzan alla fine ci aveva anche preso gusto. Ci siamo fermati a tutti i "Miradouros", i punti panoramici di cui sono costellati i 40 chilometri del perimetro isolano; siamo arrivati in tetto al vulcano, dove un anello di 8 chilometri percorre tutto l'orlo del cratere, in mezzo ad una vegetazione rigogliosa  (l'abbiamo percorso tutto? Ne abbiamo fatto due pezzettini tanto per fare il gesto? Abbiamo fatto due giri e il secondo con una gamba sola? Resterà un segreto tra me, Fortunata e i nostri sandaletti da finto trekking). Siamo scesi ad ogni indicazione di spiaggia o piscina naturale e alla fine i kilometri erano quasi 100!

Restituito lo scooter, con le braccia che ancora mi vibravano abbiamo scovato un ristorantino dove il cameriere gobbo e con la memoria a breve completamente andata ci ha deliziati con una cena di pesce fresco locale (tonno e merluzzo vanno alla grande da queste parti), un arsenale di contorni e un brodino di pollo come apetizer. Vino bianco dalle terre vulcaniche dell'isola di Pico e un conto finale che in Italia ci mangi in uno e magari male.

La mattina seguente sveglia alle sette, colazione al forno Nova Vida e briefing con il biologo che ci avrebbe di lì a poco accompagnati a vedere balene e delfini. Prima di partire col potente motoscafo, Juan ci ha giustamente insegnato a distinguere gli uni dalle altre. Scherzi a parte, ora so che i Capidogli sono più simili ai delfini che alle balene. È per via dei denti e del fatto che cacciano anzichè  filtrare l'acqua per ingozzarsi di krill e plancton.
Balene? Viste (presenze emozionanti ma che concedono poco allo spettatore). Più  ruffiani i delfini che hanno giocherellato attorno alla barca finché non si sono stufati e in quattro salti ci hanno seminati.

Pomeriggio nella spiaggia di Porto Pim, bagnetto su acque oceaniche incredibilmente calme, aperitivo, cena,  caffè un drink al Bar Sport da Peter, fingendo di essere velisti.

Alla fine di questa prima tappa, due sono le domande che restano tuttavia senza risposta: come mai in quest'isola tutti hanno il Pick up, più o meno nuovo, carrozzato con un cassone di ferro e legno, costruito con tecniche e foggia di 100 anni fa? E soprattutto, cosa c'è alle Azzorre quando l'omonimo anticiclone se ne sta a spasso per l'Europa?

A queste e ad altre domande troverete risposta nelle prossime puntate. Forse.

sabato 4 aprile 2015

SABATO DI PASQUA E IL TEMPO SOSPESO

Ho sempre amato il sabato prima della Pasqua.
E’ un giorno apparentemente inutile: tutto è già successo e tutto deve ancora succedere. L’ingresso trionfale a Gerusalemme, tra la folla osannante e gli ulivi ma in groppa ad un asino (e qui bisognava capire che non finiva bene), l’ultima cena, il tradimento, i soldati, le spade, gli orecchi tagliati, gli interrogatori e Gesù che si avvale della facoltà di non rispondere, poi le torture e lo smacco della croce. E infine la morte, i pianti delle donne (che gli uomini non piangono mai), gli  unguenti e la pietra fredda del sepolcro.
E’ già successo tutto. E’ già tutto finito, ma noi sappiamo (perché gli evangelisti hanno “spoilerato” da mo’ il finale) che poi accadrà l’impensabile. Domani. E oggi che si fa? Nulla. Si aspetta.
Che meraviglia, che sollievo. Non si fa nulla, manco piangere. Non ci è richiesto niente: il sabato di Pasqua non ci si aspetta che nessuno faccia qualcosa, se non aspettare.
Ma non è un giorno bellissimo questo? E’ come il tempo in cui il vino si ossigena sul decanter o quello che serve alla pasta del pane per lievitare: inutile aver fretta, anzi, dannoso!
Ecco il mio augurio per la Pasqua: tanti momenti di tempo sospeso, gratuito, esentato da ansie di prestazione e disseminato a casaccio nelle nostre giornate, settimane e mesi a venire.

E’ sabato. Non c’è niente da fare, ti puoi finalmente riposare.

domenica 18 gennaio 2015

Big Hero 6, i minirobot e il potere della rete

Spero che le figlie non smettano troppo presto di chiedermi di accompagnarle al cinema a vedere i cartoni (che poi ormai dovremmo chiamarli in altro modo, per come nell’era digitale si sono trasformati). E quando non ne vorranno più sapere mi offrirò per accompagnare i figli dei miei amici, finché non arriveranno i nipoti e allora sarò salvo oltre che rincoglionito.
Ho visto Big Hero 6 della Disney. Lasciamo stare che è bello. Passiamo oltre al fatto che tocca temi tutt’altro che banali e fermiamoci sull’oggetto che secondo il mio punto di vista costituisce il vero nucleo di questa storia: i mini-robot.
No Andrea, tu hai visto un altro film! Il protagonista è quella specie di omino Michelin che si vede in tutti i manifesti pubblicitari. Digita “Big Hero 6” su google e vedrai che dei tuoi mini-robot non trovi quasi neanche traccia.
Abbiate la pazienza di leggermi e vi spiegherò perché mi interessa la metafora contenuta in questi aggeggi.
Fin dall’inizio del film il piccolo protagonista, un genietto 13enne, partecipa e stravince nei combattimenti clandestini tra robot grazie ad una specie di marionetta apparentemente innocua, che in realtà si rivela invincibile perché composta da elementi che mantengono un collegamento anche quando si separano, per poi ricomporsi in varie configurazioni.
Il concetto viene poi estremizzato nell’idea pazzesca dei mini-robot che da soli sembrano misere cimici ma uniti a milioni e comandati da un trasmettitore neuronale acquisiscono un potere enorme.
Non voglio spoilerare il film, che vi invito a vedere senza limiti di età, mi interessa solo sviscerare un altro po’ la metafora. I singoli elementi hanno una peculiarità: cercano sempre di entrare in connessione con gli altri simili. Si cercano, come attratti da un magnetismo irresistibile, ed essendo minuscoli riescono ad assumere ogni tipo di forma. Si separano momentaneamente per poi ricomporsi, sempre comandati da un unico pensiero.
Va da sé che gli esiti di questo potere possono avere segni anche diametralmente opposti, a seconda delle finalità di chi ne ispira l’azione. Se a comandarli è una mente malvagia possono diventare una inquietante arma di distruzione, oppure possono rendere possibili grandi imprese se mossi da un pensiero costruttivo; quello che conta è che insieme possono essere invincibili.
Questa ambivalenza nel film è ricondotta anche alla psicologia degli umani, mostrando che anche la persona più pacifica può trasformarsi in un mostro, così come gli sforzi di singole persone geniali rischiano di restare vani se non sono orientati da uno scopo più alto e collettivo.
Se ci pensiamo bene funziona così anche il terrorismo internazionale, come la cronaca recente ha tristemente dimostrato: singole cellule indipendenti, guidate da una forte ideologia, possono attivarsi in più punti del globo terrestre per portare a termine azioni efferate.
Eppure, per lo stesso principio e con lo stesso smisurato potenziale, individui connessi tra loro e animati da scopi di miglioramento vedono aumentato in modo esponenziale il loro potere, mantenendo la flessibilità e la capacità di adattamento propria dei singoli.
Ogni “nodo” è indipendente e insieme connesso, è centro di un sistema e periferia di altri di cui è a servizio.
Trasformare questo modello in uno strumento di terrore o in progetti adatti ad affrontare le perturbazioni socio-economiche del nostro tempo dipende solo da noi e dal nostro pensiero.
Questo miracolo si chiama “rete”.
Se avete cliccato sul link ormai siete usciti dal mio Blog. Ma quello che dovevo dire ormai l’avevo detto e allora: pubblicità!