mercoledì 30 gennaio 2013

Attesa tattica.

Sto fermo in ascolto, 
aspettando di percepire un segnale 
che suggerisca il prossimo passo.
Un fruscio, uno spiraglio di luce, 
un canto.

lunedì 28 gennaio 2013

Cosa bolle in pentola


Lo chiamava minestrone, ma in realtà quello che faceva mia mamma era un passato di verdure. Non c'erano insomma i pezzetti di patate, carote, fagioli, sedano ecc., ma tutto veniva tritato nel passaverdura per ottenere una densa e uniforme zuppa, il cui colore poteva virare dal marrone scuro al terra di Siena, a seconda del prevalere dell'uno o dell'altro ingrediente.
Non mi piaceva, ma non e' questo il punto. L'immagine che mi è tornata in mente in queste settimane di grande fermento è quella della pentola dove mia mamma preparava il suo "minestrone": io sono seduto sul tavolo della cucina e faccio i compiti, sul fornello bolle l'acqua con dentro le verdure e il vapore appanna tutti i vetri delle grandi finestre della cucina. Dentro la pentola, visto che poi comunque sarebbero state passate, le singole verdure sono intere o tagliate solo in due o tre pezzi e sobbalzano in continuazione salendo, scendendo e cozzando tra loro nel turbine provocato dall'ebollizione.

Esattamente così. In un momento di cambiamento importante tutti gli ingredienti del problema e delle soluzioni, del vecchio e del nuovo, sono immersi nello stesso liquido e si muovono vorticosamente e in modo apparentemente casuale e conflittuale.
Non ci si può mica fare niente. Bisogna lasciarli essere in questa compresenza dinamica e un po' stressante, anche per un tempo lungo. Diversamente gli estratti dei vari ingredienti non si mescolano e non si integrano, formando qualcosa di nuovo che sia più della somma delle parti. La trasformazione in gioco infatti non è fisica (reversibile) ma chimica (irreversibile).

La tentazione di intervenire, separare, accelerare questo processo è fortissima. In alcuni momenti questa commistione di cose vecchie e nuove risulta quasi insopportabile: è in quei precisi momenti che entra in gioco quella che chiamiamo "resilienza". In un recente articolo su Repubblica, Federico Rampini definiva questa proprietà -tipica dei metalli ma per esteso applicata alle persone, alle organizzazioni e alla società - come la capacità di rigenerarsi e riacquistare le proprie caratteristiche, dopo e nonostante esse siano state modificate o stravolte da un evento esterno.

Senza scomodare i grandi del giornalismo o i guru del miglioramento personale, direi che la resilienza potrebbe essere definita da un filosofo non praticante come la capacità di "stare" nelle situazioni, di reggere tensioni e incertezze fino al punto in cui -per una serie di circostanze interiori ed esterne- il processo di trasformazione chimica non sarà compiuto. Allora –e solo allora-  si potrà versare tutto il contenuto della pentola nel passaverdura e ottenere finalmente un risultato nuovo, che avrà in più lo straordinario pregio di recuperare anche quanto di meglio c'era nel vecchio.

Poi, una volta versato e assaggiato, se ci va chiamiamolo pure minestrone.

lunedì 21 gennaio 2013

Non si vede nulla


Di tutte le condizioni metereologiche, ce n'è un paio di cui non è così immediato il senso. La pioggia è essenziale alla vita, la neve pure e ci si può anche sciare sopra, addirittura il vento in certe giornate lo capisci, con la sua capacità di far piazza pulita nel cielo, di spingere una vela o ancora di farti vedere panorami mozzafiato. Ma la grandine e la nebbia a cosa servono? Non mi sto chiedendo come o in quali condizioni si formano, ma che funzione hanno nella visione antropocentrica dell'universo che -ci piaccia o no- ancor oggi ci appartiene.

Della grandine parleremo in altre occasioni, perché è la nebbia che mi ha ispirato questa riflessione. Ci pensavo domenica scorsa, salendo con gli sci una piccola cima del gruppo del Lagorai, in un paesaggio lattiginoso dove il confine tra il bianco della neve e quello della nebbia sembrava non esistere. Che strana sensazione: non vedi dove stai andando, non vedi la meta, non vedi il punto da cui sei partito. E non vedi il paesaggio. Ma che senso ha allora andare, proseguire, con la nebbia? Che se viaggi in auto è pure pericoloso, ma lasciamo stare le condizioni della modernità: mi interessa la nebbia in relazione al camminare.

E mettendo uno sci davanti all'altro, seguendo la traccia di chi mi aveva preceduto, ho capito una prima cosa. La nebbia ti costringe a guardare dove metti i piedi, ti focalizza sul qui e ora perché esclude tutto il resto. Quando c'è nebbia è inutile ragionare sulle prospettive lunghe: si è tutti concentrati nel presente fisico e si impara l'arte di temporeggiare. Sì temporeggiare, prendere tempo, procedere con prudenza, fermarsi all'occorrenza: tutto il contrario di quello che consigliano i guru della gestione efficace del tempo o i profeti dell'alta velocità competitiva.

Perché capitano nella vita i periodi di nebbia. Non so se ve l'hanno detto, ma capitano.  Momenti in cui non ci capisci granché un po' in tutti gli ambiti della vita: quelli che se vai da un astrologo a farti predire "amore, salute e denaro" ti risponde  "non pervenuto", come appunto avveniva nelle vecchie previsioni del tempo quando da una località non giungevano in tempo le informazioni sulle condizioni meteorologiche. Non vedi chiaro, non capisci, non percepisci prospettive di soluzione alle situazioni critiche in cui ti trovi; le stesse relazioni fondamentali sono opache o in stallo. Questa e' la nebbia.

E allora che si fa? Stai lì a chiederti come mai si e' formata, o come sia successo che ci sei finito dentro? Abbastanza inutile, converrete con me. Meglio rallentare innanzitutto. Ridurre la velocità, il ritmo, l'intensità del fare e -perché no- del pensare, e procedere piano guardando ad un palmo dal proprio naso. Fai  un passo, vedi un po' più in là, fai un altro passo e scorgi un riferimento. Ti confondi, non è quello che pensavi, e procedi guardandoti sempre le punte delle scarpe. Ah sì, non l'ho detto: la nebbia è una esperienza solitaria. E' vero che puoi seguire uno davanti a te che fa da "pesce" (si dice così nel gergo degli automobilisti) ma l'esperienza della scarsa visibilità è tendenzialmente interiore e singola, e se quello davanti va troppo forte tu finisci per lasciarlo andare e preferire un'andatura compatibile col tuo rapporto con l'assenza di visibilità.

Poi, a forza di andare avanti, arrivi al limite del banco. Questo è ancora più vero se stai salendo in quota. La nebbia e' stratificata: o è a monte o è a valle; per cui ad un certo punto cominci a veder filtrare il giallo del sole. Certo: il sole! Perché la nebbia viene con l'alta pressione, mica con la bassa pressione umida e nebulosa! E questa è un'altra utile metafora per la nostra vita: i periodi in cui siamo persi nella nebbia sono quelli in cui il cielo sopra di noi è sgombro da nubi e perturbazioni e manca pure il vento. Solo che evidentemente noi finiremmo per dare per scontato tutto, se ogni tanto non ci venisse sottratto alla visione.

E allora anch’io aspetto, camminando piano, che torni azzurro il cielo.

martedì 15 gennaio 2013

Mi sono perso.


Non sai mai quando inizi a perderti. Qual è il momento preciso in cui lasci la rotta che avevi tracciato e prendi una nuova direzione. Non lo sai perché all’inizio il cambiamento è impercettibile: una piccola deviazione, lo spostamento di qualche grado della direttrice che non sembra qualcosa in grado di compromettere il viaggio.

Oppure lo sai, lo “senti” che stai facendo qualcosa che non ti porterà bene, ma la voglia di provare e tanta e quel qualcosa che ti calamita fuori dal sentiero tracciato ha una potenza superiore alla tua volontà consapevole.

Difficile quindi stabilire se si tratti di un vero e proprio “errore” o se sia uno dei tanti modi in cui la vita ci porta a prendere consapevolezza della necessità di un cambiamento. Esci di rotta, quindi, e quando te ne accorgi con matematica certezza la reazione è quella di sedersi in un sasso e, con la testa tra le mani, chiederti come cazzo hai fatto a perderti per l’ennesima volta. Ovviamente imprechi, contro di te e contro la tua ossessione nel seguire tracce quasi invisibili volendo a tutti i costi vedere in esse un sentiero, ovvero una via che porti effettivamente da qualche parte.

E invece ti trovi nel nulla. Perso. Perduto. E di energie ne hai messe in quel percorso maledetto. Tante energie, che ora ti servirebbero per toglierti dai guai e invece non ne hai quasi più. Questo è esattamente il momento più pericoloso. Questo è il momento che sto vivendo adesso.

Sì è vero. Ci sei già passato e sai dentro di te che si può sopravvivere. Sai che grazie a queste deviazioni poi finisci per scoprire orizzonti che neppure immaginavi, oppure incontri persone che non avresti mai incrociato. O, ancora meglio, finisci col fare scelte che non avresti mai avuto il coraggio di fare. La prima scelta è quella di lasciare a terra tutto quello che non serve, il superfluo, quello che fa sprecare inutili energie. Quando ti sei perso recuperi un senso fondamentale, che nelle situazioni di cammino tranquillo tende ad assopirsi: il senso della sopravvivenza. Il “sentire” privo di esitazioni che distingue tra ciò che è “vitale” e ciò che è “mortale”, e ti fa seguire il primo ed evitare il secondo.

Bene. Seduti su quel masso, col desiderio di restare lì inermi ed inerti, si aspetta che arrivi. Si aspetta che arrivi la voglia e la forza di alzarsi di nuovo e mettere un passo dopo l’altro. Giustamente vi chiederete: “sì, d’accordo, ma la direzione in cui andare come si fa a deciderla?”. Non c’è nulla da decidere, secondo me, perché la scelta da fare è solo una, per quanto possa sembrare paradossale: andare avanti nella direzione in cui si stava andando, avendo “scelto” di sbagliare strada. E’ come fare un atto di fiducia nei confronti del proprio inconscio, che evidentemente ci ha attratti lì per un segreto motivo.

Tornare indietro non è mai un buon affare. Si può arretrare tatticamente in alcune circostanze, perché magari ci si trova di fronte ad un ostacolo insormontabile, ma non si deve tornare al punto di deviazione. Mai. Lo so che non siete d’accordo, ma io sto parlando della vita, non della morte. Si può anche decidere per la morte, sia chiaro, ma non è di quello che mi interessa parlare.

Quello che invece è necessario fare prima di ogni altra cosa è recuperare forze e non avere alcuna fretta di rimettersi in cammino. Si può camminare piano, cercare dell’acqua. Magari un riparo temporaneo dove curarsi le ferite e far rifiorire il vigore. C’è anche bisogno di spurgare molto, lasciar defluire le tossine accumulate nell’accanimento a voler seguire le promesse della nuova via. C’è da scontare un po’ di depressione e da lasciarsi vincere per un po’ dai sentimenti negativi.

Nel frattempo si cerca di stare meglio che si può, nei dintorni di quel masso dove ci siamo seduti, esausti e scoraggiati.