Lo so, è una cosa da Boomer. Ma non sono resistito.
In questi tempi di totale incertezza e imprevedibilità, dove si inventa un acronimo al giorno sperando che funzioni come una parola magica, mi è venuta naturale la parodia della celebre canzone nonsense anni ‘70. Erano le Figlie del Vento e c’erano ancora i Juke Box.
Questi primi mesi dell’anno, dove i mercati già depressi sono stati attraversati dal ciclone dei Dazi e da altre piaghe che neanche l’Egitto ai tempi di Mosè poteva immaginare, hanno ulteriormente rafforzato l’idea che instabilità e volatilità siano cifre esclusive della nostra condizione contemporanea. In passato c’erano sicurezze e certezze, oggi traballa tutto e i piedi non sanno dove poggiare per guadagnare un po’ di equilibrio.
Ma dove? Ma quando?!
La precarietà, l’avere la vita appesa a un filo, l’essere costantemente in balìa di una natura potente e di eventi imprevedibili è stata per centinaia di migliaia di anni la normalità per la nostra specie, straordinariamente intelligente e fisicamente debole. I Sapiens sono riusciti a collaborare e questo ha permesso alla civiltà di sfangarla fino ai giorni nostri, ma poco più di 80 anni fa, nel pieno della seconda guerra mondiale, molti dei nostri genitori e nonni hanno sperimentato la fame e il dubbio di avere qualcosa da mettere sul piatto il giorno dopo. E a qualche decina di migliaia di chilometri da noi, ancora oggi è così.
Ci siamo illusi che una maggiore disponibilità economica e il progresso scientifico avrebbero potuto ridurre o addirittura annullare il dubbio della sopravvivenza. Ci abbiamo creduto per qualche decennio, finchè tutto il nostro sistema di certezze è crollato sotto i fendenti della storia e della complessità, che si sono prese la rivincita sulla Hybris del genere umano e sul suo delirio di onnipotenza.
Sei un imprenditore e una brava persona, tutti lo riconoscono. Nel pieno di un nubifragio stai andando verso il centro della città per dare una mano alla Protezione Civile. Con te c’è tuo figlio, nel fiore dei suoi 20 anni. L’acqua del fiume scorre impetuosa mentre ci passi sopra con la tua auto, esattamente nel momento in cui il ponte cede e la tua vita finisce, trascinata dalla corrente a chilometri di distanza. Questione di secondi (no minuti, secondi) e sarebbero stati salvi.
Che senso ha una cosa del genere? Qualcuno degli ottimisti esistenziali sa dare una risposta plausibile?
In Sicilia direbbero “je accussì”, con un fatalismo che però nasconde l’accettazione di una condizione precaria e di un destino assolutamente arbitrario.
Questa non è la cifra dei nostri tempi, è la cifra della nostra condizione. Che ci piaccia o no.
E qui, esattamente qui, arriva la potenza dirompente della Pasqua. In una umanità sconfitta e disperata, a un certo punto della storia, arriva un messaggio di rinascita e speranza: esiste una forza capace di sopravvivere alla morte e di dare un senso anche alla fragilità dell’esistenza. Questa forza è l’amore, in tutte le sue meravigliose forme: l’unica in grado di far uscire l’essere umano dalla sua costitutiva precarietà e permettergli di lanciarsi tra le onde del destino e sopravvivere a sé stesso, grazie ai frutti della generosità e dell’altruismo.
Oppure no. Non è vero e non c’è alcuna speranza.
Per fortuna si può scegliere!
Buona Pasqua a tutti!
Andrea Pozzan
Filosofo non praticante





