sabato 24 dicembre 2016

Con le mani lungo i fianchi - Natale 2016

Non si fa. Non è educato.
Ci hanno insegnato che quando si va a trovare qualcuno bisognerebbe bussare con i piedi, intendendo che le mani dovrebbero essere occupate a reggere un dono o qualcosa da mangiare in onore al padrone o alla padrona di casa. Niente mani lungo i fianchi quindi, figuriamoci a Natale.
"Cosa prendiamo per Luisa? E a mamma ci hai pensato?". "Il regalo gliel'abbiamo già fatto ma non possiamo presentarci senza niente, metti che poi arriva zio e noi non abbiamo niente da dargli". E gli amici, i colleghi, le amiche, i clienti, i passanti che incroceremo il giorni di Natale...?

Di solito la vigilia di ogni Natale e ogni Pasqua preparo un piccolo dono, un racconto o un pensiero. L'ispirazione arriva la mattina stessa o trae spunto da un mio sguardo insolito sulle cose di ogni giorno. Ebbene oggi non è arrivata. Anche lo sguardo non sembra voler andare oltre ciò che appare. E allora sono qui, alla vostra porta, con le braccia lungo i fianchi.
Niente di bello o quasi intelligente da dire. Nessuna fragranza uscita dal forno del filosofo non praticante.
Solo io.

Mi chiedo se avrei il coraggio stasera e domani di presentarmi così a tutte le cene, i pranzi e le riunioni di famiglia e con gli amici. Dire "sono io e sono qui" come fosse un dono di per sé.
Forse no ma mi piacerebbe tanto farlo. E sarebbe bello che un Natale su 100 fosse celebrato così: nessun regalo a parte noi.

Se ci penso, ho molte  persone la cui sola presenza nella mia vita è un dono. Per un minimo di reciprocità, potrei esserlo io per altri. E quale giorno migliore del Natale, che siamo credenti o meno, per celebrare la grande fortuna di avere persone care e di poter contare l'uno sull'altro, grazie alla nostra diversità e unicità.

Quel giorno, quel Natale davvero magico, ci presenteremo alle porte di amici e parenti con le mani libere e diremo con un sorriso: "sono qui, sono il mio regalo per te".

E a essere finalmente libero sarà anche il nostro cuore.

Buon Natale, anche se bussaremo coi piedi come ogni anno!

lunedì 3 ottobre 2016

IL PUNTO DI NON RITORNO (racconto breve)

Stavolta propongo un piccolo racconto, leggero ma non troppo.
L'avevo scritto per un concorso letterario: un bella esperienza che è andata come è andata. Non essere tra i finalisti ovviamente mi fa rosicare, ma ci sta al primo tentativo (dico a me stesso): la cosa buona è che lo posso pubblicare tranquillamente e -con il tipico narcisismo di chi scrive- immaginare che così un pubblico lo troverò comunque!

Il tema del concorso era "Segue rinfresco": un appuntamento sociale, un'occasione che potrebbe cambiare molte cose, oppure no. In ogni caso alla fine ci aspetta il buffet.


IL PUNTO DI NON RITORNO

Le olive ascolane non sono tutte uguali. Di norma ne bastano tre, con il loro nucleo incandescente, a rendere vane le ulteriori fatiche di ogni mago del catering. Quelle della nonna di Sofia fanno eccezione e sono l’unica ragione per cui sono qui, in mezzo a gente di cui non mi importa granché.
Innanzitutto le olive devono essere quelle giuste, le ascolane per l’appunto. Vanno tagliate a mano, incidendole a spirale per estrarre il nocciolo e la preparazione del ripieno prevede la mescolanza di tre diversi tipi di carne, uova, formaggio, spezie e chissà cos’altro. Chiusura e panatura sono attività che si possono delegare, ma a friggere è nonna Angela. Lei sola sa quando l’olio è a temperatura e per quanto tempo gli ovuli dorati devono rimbalzare allegri prima di essere estratti e depositati nella carta paglia. Finché non le assaggi è impossibile capire la differenza.

Probabilmente è per via della mia vita sociale, ridotta ormai ai livelli di uno sfigato di professione. Dev’essere questo il motivo per cui ho accettato l’invito delle mie colleghe all’inaugurazione del Social Hub, una sorta di contenitore di attività no-profit nato dal recupero di un ex insediamento industriale, ormai inglobato nella periferia triste della città. 

Non ricordo con precisione quando è iniziata questa fase di progressivo isolamento. Non me ne sono reso conto subito, perché il mio lavoro comporta una quotidiana immersione nelle relazioni: quando non ho qualcuno seduto davanti alla scrivania, parlo al telefono, visito clienti o faccio skype call con persone da ogni parte del mondo. Partecipo ad eventi interessanti, sono collegato con un’enorme quantità di persone nei social sia per lavoro che per cazzeggio. Riesco a convincermi che le mie giornate sono così piene di senso e soddisfazione da non riuscire mai a pensare a cosa farò la sera. Così -nella tipica schizofrenia della vita di un genitore separato- alterno serate passate con le figlie a cucinare e sistemare casa con altre in cui prolungo il lavoro fino a potermi dire con buona pace che è troppo tardi per uscire. Una cena ogni tanto con i pochi amici che ancora posso chiamare tali e storie con donne che deludo con metodica sistematicità.

Il fatto che mi diverta a parlare in pubblico e che difficilmente mi trovi a corto di cose da dire non significa che io sguazzi beato dentro alle situazioni come questa. C’è un sacco di gente nell’enorme capannone coi muri imbiancati di fresco e il pavimento di cemento che ha ancora le righe gialle dei percorsi per i muletti. Gente strana per lo più, o così almeno appare a me stasera. Strana vuol dire con i capelli rasta o i pantaloni col cavallo appena sopra le ginocchia, mica sto dicendo strana davvero. Forse quello strano sono io, che mi aggiro con un calice di prosecco in mano e non parlo con nessuno. Dove sono finite le mie colleghe? Si era detto di arrivare alle sette e mezza, sono lo otto e ne fosse arrivata una. Mi serve un’àncora, un gruppo di volti noti a cui attaccarmi per non far vedere quello che in realtà si è già visto. Oppure cerco le olive ascolane.

Sofia è arrivata qui solo da pochi mesi e già conosce il mondo. Penso a questo mentre cerco traccia delle uova d’oro di sua nonna: è lei che ha scoperto il Social Hub, lei che ha stretto amicizia con i giovani fondatori, lei che ha convinto la nonna a creare le sue opere d’arte, congelarle e spedirle su per l’inaugurazione. Penso a questo e intanto entro in una delle porzioni in cui è stato diviso il grande fabbricato. Sofia è davvero una continua sorpresa: a vederla e a sentire lei, è tipo prudente e riservato, che non ama esporsi troppo. Poi la metti con un microfono davanti a 150 persone e lei parla disinvolta e sicura, neanche ne facesse ogni giorno di cose del genere. Sono sempre alla ricerca delle olive ascolane ma intanto mi incuriosisce lo spazio in cui mi sono addentrato: è di una cooperativa che costruisce arredamento con materiali di riciclo. Ne ho viste a pacchi di cose del genere ma questi sembrano aver qualcosa da dire. Niente pallet riciclati come tavoli o fioriere, niente cartone incollato, niente oggetti fatti con la plastica riciclata che compri solo perché sai che un po’ è a fin di bene e nel tuo cuoricino falso ti immagini di aver salvato un poveraccio. Questi hanno cambiato le regole del gioco: prendono pezzi di arredo dismessi, oggetti dimenticati, suppellettili, vecchi strumenti e -anziché restaurarli in senso classico- li catalogano per colore e li vendono on-line. La gente in giro per il mondo non vuole oggetti, vuole qualcosa di viola da mettere nella libreria gialla. E loro lo hanno capito. Geni.

Sto maneggiando un boccale di latta bianca con lo smalto saltato qua e là e la bordatura blu cobalto. Lo guardo, lo tocco e da dietro una voce calda mi dice “è un vaso da notte, lo sai vero?!”. Improvvisamente mi sembra di sentirlo quello strano odorino. Appoggio l’ambiguo oggetto e istintivamente mi passo le mani sulla maglia, girandomi verso la voce sconosciuta. Mi travolge un sorriso contagioso, incorniciato da un viso dolce, non bellissimo e maledettamente intrigante. “Certo, me ne serviva giusto uno perché ho il bagno fuori in giardino e d’inverno si gela”. Il tentativo di battuta si rivela penoso ma non mi perdo d’animo: 

“lavori qui?”. 
“beh, intanto ciao, mi chiamo Elena”
“ah già, non ci siamo presentati… io sono Eto”
“che nome originale!”
“ah sì.. in realtà mi chiamo Dino ma da piccolo le sorelle mi chiamavano Dinetto, e poi Eto. Insomma è una storia lunga e Dino non mi piace.”
Potrei scrivere un manuale sugli approcci maldestri. Mi vengono proprio naturali.
Scopro che Elena studia Ingegneria matematica (disciplina di cui ignoravo perfino l’esistenza) e nel tempo libero collabora con la cooperativa RAL 3003. Io per un po’ fingo di aver capito perché hanno chiamato così la loro attività ma poi la curiosità ha la meglio; per me RAL è solo la Retribuzione Annua Lorda dei manager che colloco in azienda e nella mia testa si associa alla percentuale che posso fatturare ad assunzione avvenuta.

“So cosa significa la sigla RAL [falso] ma… perché 3003?” [ti piace il rischio vero?]
“E’ il codice che identifica la vernice rosso rubino.” [ti è andata di culo, eh?!]
“E come mai proprio il rosso rubino?”
“E’ il colore dello smalto per unghie che preferisco”.
Io deglutisco. I piedi scalzi e le unghie curate con lo smalto rosso sono i sintomi letali del mio feticismo occulto.
Torno a guardarle il viso, cercando di distogliere lo sguardo dalle sue mani, e noto solo adesso i suoi occhi. Strano perché di solito è una delle cose che più osservo in una donna e quelli chiari mi lasciano senza scampo. Infatti lei li ha nerissimi e insondabili.

“Quindi, se hai deciso il nome della cooperativa, tu c’eri fin dall’inizio?”
“Ma no, prima scherzavo! RAL 3003 è il colore del primo oggetto che Gigi e Roberto hanno venduto quando la cosa è iniziata per gioco, sette mesi fa”.
E’ un po’ come ballare con una persona che ti piace e non riuscire a prendere il ritmo. Io che mi vanto di essere velocissimo di testa e intuitivo, non ne sto azzeccando una.
I secondi di silenzio che seguono la sua risposta suonano come un campanello di allarme per il mio tentativo di aggancio: urge un diversivo. Accidenti, se avessi davanti le olive ascolane della nonna di Sofia potrei lanciarmi in una degustazione guidata, ma qui ho davanti solo il pitale bianco e non mi sembra il pretesto ideale per cambiare discorso.

Mentre penso a come uscire dall’impasse, con la coda dell’occhio vedo entrare le colleghe dal portone principale, tirate in gran spolvero e… in compagnia dei loro uomini. Tradimento! Doveva essere una serata “solo colleghi” e io non ho invitato nessuna (sì ok, per loro è più facile perché hanno una relazione stabile ma buon Dio, se mi avvisavano mi organizzavo pure io).
Mi scuso con Elena, raccomandandole di non muoversi, e vado loro incontro col migliore sorriso del repertorio e le palle che girano a mille. Le saluto un po’ freddino e poi dedico la mia attenzione agli uomini con i quali, per ancestrali motivi, istintivamente si tende a stringere un’alleanza complice. Do subito le coordinate su dove possono trovare la birra e il prosecco, cioè le uniche cose a cui anche loro sono interessati, oltre ovviamente a osservare la fauna. Vicino all’entrata c’è un laboratorio di pasticceria dove si parla di lievitati e le colleghe ne vengono attratte come avessero lambìto il vortice di un buco nero: gli occhi che brillano e le bocche semi aperte mi dicono che sono già cadute in trance glicemico e questo significa che posso dedicarmi nuovamente a Elena.
Torno sui miei passi ma non la vedo più dove l’avevo lasciata. Maledico in cuor mio le colleghe mentre mi sale in gola la delusione, tuttavia continuo ad avanzare verso lo stand della RAL 3003, con la tipica ostinazione di chi non vuole prendere atto della realtà. 

“La macchina non c’è più”. Mi capita. Spesso. Non è che me la rubino di continuo, è che non ricordo dove la parcheggio e la cerco nella via sbagliata: dopo un po’ realizzo l’errore e allora mi rilasso, ma per alcuni minuti è panico. L’ho fatto anche con Elena: l’avevo parcheggiata in un posto diverso e me l’ero già scordato.
Dissimulo il mio sconcerto e cerco di avvicinarmi come niente fosse.

“E’ successo qualcosa che ti ha turbato?”
“No, perché?”
“Ti ho visto un po’ disorientato”
“Ah.. beh [ehm] ho sempre la testa tra le nuvole… ma dimmi, piuttosto, perché hai scelto proprio ingegneria matematica?”.
Quella di tornare su un terreno familiare è un’ottima tecnica per cavarsi d’impaccio. Funziona sempre.

“A dire il vero stavamo parlando di te, non di me”.

Diciamo che funziona “quasi” sempre.

“Mi piacciono i tipi con la testa per aria… me li immagino presi da mille pensieri e vittime di una creatività impossibile da controllare. Chissà che lavoro interessante farai? Sei anche tu impegnato nel no profit?

Se intendi che -pagate le tasse e i contributi- non mi resta in tasca praticamente niente allora sì, lavoro nel fuck-profit.

“In un certo senso sì. Ma non mi piace parlare del mio lavoro. Non faccio nulla di straordinario. Aiuto le persone, certo, ma non qui. All’estero.”

I suoi occhi spalancati di ammirazione alimentano come aria calda la mongolfiera della mia menzogna.

“In Africa. Insomma, non l’Africa equatoriale con leoni rinoceronti e compagnia bella. Lavoro con una ONG che opera in Sierra Leone”.
“Ma la Sierra Leone E’ in Africa Equatoriale!”
“Sì, certo… intendevo dire che la deforestazione e la caccia spregiudicata… insomma, non è più l’Africa equatoriale del nostro immaginario”.

Bisogna essere bravi nell’inventare balle. Bravissimi nel saperle gestire e io modestamente scarseggio in entrambi gli sport.
Però l’arrampicata sugli specchi è una specialità in cui ho raggiunto prestazioni di tutto rispetto, fin dai tempi degli esami di filosofia quando capitava la domanda proprio sull’unico capitolo che -per motivi che ancor oggi ignoro- non avevo neppure letto.
Usare parole come “immaginario” (guardandosi bene dall’associarle banalmente a parole come “collettivo”) fa parte dei fondamentali del provetto mirror climber.

“Sai che mi capita davvero raramente di incontrare uomini come te, con i quali posso condividere una visione e che magari azzeccano pure i congiuntivi?”
“oddio… non esagerare adesso…”
“Dai, parlami ancora di te. Dio mio: la Sierra Leone. Cosa fai di preciso laggiù? Deve essere un’esperienza fantastica!”
Fa tutto lei.

“Non faccio nulla di straordinario. Formo i volontari dal punto di vista psicologico e relazionale: devono sapere come avvicinare le situazioni, come gestire se stessi rispetto allo stress e al rischio dell’annegamento emotivo…”

Lei è assolutamente adorante e questo mi piace. Devo solo cesellare un paio di particolari e…

“È incredibile. Incredibile e fantastico quello che mi dici! Ho uno zio missionario in Sierra Leone e ho sempre desiderato fare un viaggio e andarlo a trovare. Ora c’è un motivo in più! Devi darmi subito le coordinate di dove lavori così quando sento mio zio… Anzi: gli mando subito un messaggio…”
“No!”
Elena mi guarda interrogativa.

“No… nel senso che non è il caso di farlo adesso. E poi c’è il fuso orario: chissà che ora è in questo momento in Sierra Leone, magari lo disturbi o sta dormendo”
“Ma scusa, non vorrai dirmi che vai avanti e indietro dalla Sierra Leone e non sai che sono solo due ore indietro? Mio zio è un missionario, mica una gallina”.

Questa mi ha agganciato: lanciare falsi bersagli!

“Lascia stare tuo zio. Ora tocca a te raccontarmi qualcosa, e magari lo possiamo fare assaggiando qualcosa, che ho visto un buffet di tutto rispetto!”
“Ho capito di te che sei bravo a dribblare! Giochi a calcio?”. Il ritorno del sorriso divertito nel volto di Elena segna il passato pericolo.
Quale sia la ragione per la quale hai deciso di raccontare una balla, esiste un tempo entro il quale è ancora possibile gettare la maschera e confessare con genuina ironia che si sta semplicemente scherzando. Passato quel momento, superato il punto di non ritorno, mentire diventa una necessità: saper riconoscere e cogliere questo kairòs distingue un abile affabulatore da un tristo millantatore.
E’ anche difficile spiegare come e perché si finisca per avvitarsi in queste situazioni senza speranza; temo abbia a che fare col fatto che siamo convinti di non poter piacere a nessuno, così come siamo.
Beh, questo sarebbe il momento perfetto per uscire allo scoperto e invece io mi infilo con tutti e due i piedi nel cul-de-sac. 
In questo angolo del Social Hub il cibo è tutto vegano: una scelta degli organizzatori che hanno voluto essere coerenti con la loro impostazione “inclusiva”. Per fortuna l’alcool c’è, perché in questo momento ho bisogno di bere qualcosa e di far bere un po’ anche Elena. Fa parte del mio piano elementare per dare un gran finale a questa serata partita male.

“Non ti sembra che il cibo vengano abbia un aspetto tutto uguale, tendente al marroncino?”
Lei sorride nuovamente buttando un po’ la testa indietro, evidenziando per pura meccanica un seno perfetto. 

“Sono davvero felice di averti conosciuto” -dice lei- “anche se vedendoti non avrei mai immaginato la tua straordinaria vita da volontario”
“In che senso, se posso permettermi? Non sono abbastanza alternativo? Pensi che quelli che fanno qualcosa di importante per gli altri debbano avere un preciso look?!”
“Dai, non fraintendermi… Ti ho solo detto che non appari per quello che sei e questo ti fa solo onore”.
Eccolo il punto di non ritorno.
Non so cosa replicare e allora sorseggio il prosecco continuando a guardarla negli occhi. Sì d’accordo, negli occhi e nel décolleté. 
In quel momento, che a me sembrava perfetto, arriva Alice con tutto il suo metro abbondante di gambe, fasciate in un pantalone di un colore indefinibile per noi profani, ma abbinato magistralmente con tutto il resto e portato con l’allegra disinvoltura di chi è gnocca da una vita.

“Dino!” -dice raggiante- “hai visto che posto figo?!”
“Ciao bella! Vieni, ti presento Elena”
“Piacere! Sono una collega di Dino”
“Wow! Anche tu lavori in Africa con lui?”
Alice mi guarda stranita e io guardo la mia bugia di cristallo infrangersi miseramente. “Ma quale Africa?!” - Alice ha ritrovato subito smalto e sembra divertita- “Dino, sei sempre il solito: cosa ti sei inventato stavolta pur di rimorchiare?”. E allunga il suo calice per un brindisi, allontanandosi poi ridendo e lasciandomi con i cocci della mia serata perfetta.
La frase “posso spiegare tutto” la dicono solo nei film, ma sarebbe l’unica che mi viene in mente.
Elena non è arrabbiata, è delusa e non lo nasconde. Sono molte le cose che le donne non sopportano degli uomini, ma la peggiore è la menzogna.
Mi saluta senza dire nulla e io a ripetermi quanto sono pirla.

Ho già detto che son bravo a deludere le donne? Però non tutto è perduto: mi restano sempre le olive ascolane di nonna Angela, che di finto non hanno nulla.
Mi sa che per trovarle dovrò allontanarmi dal buffet vegano, da Elena e pure dalla Sierra Leone.


venerdì 26 agosto 2016

Ho sognato il terremoto

Il terremoto me lo sono sognato un mese fa.

Non era premonizione del disastro in centro Italia, semplicemente l'inconscio anticipava la demolizione interiore di questi giorni.
Vacanze strane, piene di ipotesi sbagliate e mal organizzate. Vicende affettive che domandano finalmente di essere lasciate andare in pace. Impegno lavorativo eccessivo, i cui risultati sono per lo più risucchiati da tasse e da una previdenza che mi garantirà se tutto va bene la pura sopravvivenza a 70 anni o passa. La sensazione forte di aver sbagliato tutto e di dover quindi ripartire.
Quest'ultimo sentimento, contrariamente all'apparenza, è tutt'altro che negativo. Lo intendo infatti alla maniera di Igor Sibaldi come il segno e il messaggio che lo spirito ci dà circa la possibilità -prima ancora che la necessità- di essere una persona nuova e diversa a partire da questo esatto istante. La maledizione è l'identità, non la sua destrutturazione e ricostruzione. Purché nel ricostruire si impari la lezione del terremoto.

E allora sono qui e me ne sto a guardare sereno le macerie, per capire ancora una volta cosa buttare e cosa tenere (ci son già passato, so come si fa ed è un bel vantaggio).
Iniziamo da ciò che voglio tenere. Sono le fondamenta: meglio fare attenzione.
La vita innanzitutto, con la banalità apparente dell'alzarsi ogni mattina. Il sentimento della gratitudine, la capacità di godere di ogni piccola cosa. Ora ad esempio sono seduto in una panchina, all'ombra di conifere altissime, e una brezza leggera mi carezza la pelle scoperta e i piedi scalzi. Capite cosa intendo per gratitudine? Ho camminato fino a qua e quel fastidioso dolore all'anca che ha reso più difficile correre e camminare negli ultimi mesi sembra essersi attenuato. Capite cosa intendo per godere ogni istante? La chiamano Mindufullness ma è per certi versi anche il Carpe Diem di Orazio, l'attimo fuggente o la saggezza che nei salmi biblici fa imparare a contare i giorni.

Andiamo avanti con la cernita. Sara e Anna. Le figlie. Altro centro di gravità permanente: mi hanno fatto tornare da infiniti altrove infinite volte.
Poi c'è il grande progetto in ambito professionale, la sfida di creare un business che funziona e al tempo stesso rispetta, valorizza e fa crescere le persone che vi partecipano, a qualunque livello e titolo. Questo è un punto insidioso, costantemente minacciato dalla tirannia degli obiettivi minimi per far fronte agli impegni verso lo Stato. È come voler salvaguardare un ecosistema rigoglioso e dagli equilibri delicati all'interno di una metropoli intossicata.

E poi? Pochissime persone. Pochissime relazioni davvero vitali, necessarie come l'aria che respiro. Sono quelle nelle quali posso abbassare la guardia e appoggiare il capo senza timore. Sono pochissime. E questo un po' mi rammarica.

E poi?
La certezza interiore di avere un compito e una missione nella vita, la difficoltà a capire qual è, il terrore di mancarla, perdendomi nel nulla in cui sono anche adesso.

C'è anche un grande bisogno di perdono. Nel senso di perdonare io e liberarmi di due tre rancori, legati a ferite ormai passate, e quindi inutili e corrosivi. In un paio di situazioni mi sono sentito vittima, oggetto di scelte ingiuste che mi hanno costretto a sputare sangue per restare in piedi. Perdonare, lasciare andare e fare strade nuove, carico solo di un bagaglio invisibile di esperienza fatta di errori ripetuti e scelte, quelle sì, anche coraggiose. O forse devo lasciare a terra anche quel bagaglio, per essere libero di sbagliare di nuovo magari in modo diverso.

Le macerie fumano ancora polvere. Troppo presto per ricostruire: qualche parete potrebbe ancora crollare.

sabato 26 marzo 2016

Eterni bruchi - Pasqua 2016

Perché ci risulta così difficile cambiare? Semplice, perché non siamo capaci di morire bene.

Ci era già arrivato Eraclito, ma in quanto filosofo non faceva testo per i più. In compenso oggi nessuno scienziato ha dubbi sul fatto che la condizione essenziale della materia nell’universo sia il movimento.
Pure la roccia di una montagna, generalmente assunta come simbolo della staticità, è composta da atomi e
quanti in vorticoso movimento. Quelli che sanno le cose, cioè gli uomini di scienza, dicono che anche le cellule del nostro corpo ogni sette anni si rinnovano completamente: per i più meticolosi, il fenomeno si chiama Apoptosi. Sta a significare che io, a 50 anni suonati, sono all’inizio del mio ottavo ciclo di completo ricambio cellulare: biologicamente parlando, non sono più nulla di quello che ero otto anni fa. Quindi sono un altro uomo.
Eppure continuo a fare gli stessi errori o, perlomeno in questo, tendo a perseverare.
Se “l’unica certezza nell’universo è il cambiamento”, come recita la famosa targa esposta al Museo di Scienze Naturali di Londra, come mai non riusciamo a rinnovarci, a rinascere a
nuova vita. Insomma: perché non siamo capaci di risorgere?
Ce lo insegna la Pasqua cristiana (ma sono convinto che questa cifra sia rintracciabile in tante culture diverse): non possiamo diventare uomini nuovi se l’uomo vecchio non muore. Non è scritto “si fa da parte”, “diventa un po’ migliore”, “si sviluppa” o “evolve”. E’ scritto
proprio “muore”.

Tutto il fenomeno naturale e meravigliosamente programmato del rinnovo cellulare si basa sulla capacità delle cellule di agire la “bella morte”. Trasformarsi significa morire per far
posto ad altro, al nuovo. Se il meccanismo si altera succedono cose brutte. O si blocca il ricambio o il nuovo si genera senza far morire il vecchio: non scendo nei dettagli tecnici, ché sono ignorante, ma possiamo intuire come nessuna delle due prospettive abbia a che fare con la vita.

Chi crede nella reincarnazione altro non dice che attraverso il nostro stile di vita creiamo le condizioni per quella che sarà la nostra prossima esistenza, dopo la morte. Una visione ingenua delle grandi religioni monoteiste farebbe loro dire pressapoco lo stesso, solo spostando l’al-di-là in una dimensione diversa (popolata da nuvole o da vergini, a seconda
dei casi). E se invece la sapienza, accumulata nei millenni dall’umanità di tutte le latitudini e longitudini, ci volesse insegnare che tutto questo può avvenire nel corso dell’esistenza terrena di tutti noi? Che l’aldilà altro non sia che la dimensione più alta in cui ognuno di noi può reincarnarsi ogni volta che “muore” al suo vecchio sé?
Significherebbe davvero che Cristo “ha vinto la morte” per tutti noi, nel senso che ha dimostrato alle nostre teste dure che rinascere a nuova vita si può, se sappiamo accettare e fare spazio a quel sano codice -iscritto fin dentro alle nostre cellule- che include la morte nel meraviglioso processo della vita.

Ecco il mio augurio per la Pasqua 2016 dedicato a tutti noi, eterni bruchi.