mercoledì 23 dicembre 2020

ORFANI DEL CONTATTO - Natale 2020

I sensi sono la nostra finestra sul mondo.

Nihil est in intellectu quid prius non fuerit in sensu diceva San Tommaso: non c’è niente nella nostra zucca che prima non sia stato veicolato e filtrato dai nostri sensi.


L’idea che abbiamo del mondo, degli altri e anche di noi stessi parte dal semilavorato complesso prodotto da una sofisticata e meravigliosa tecnologia, che registra e scambia dati ogni millisecondo con la realtà circostante: i nostri sensi, appunto. Poi di questo semilavorato se ne fa di ogni, grazie a stati emotivi, automatismi di giudizio, valutazioni, interpretazioni, integrazioni di dati mancanti, fantasie, credenze, vissuti più o meno positivi… e così torniamo indietro ad Aristotele (di cui il buon Tommaso era fan sfegatato) e al suo “quidquid recipitur in modum recipientis recipitur”: come l’acqua prende la forma del recipiente in cui viene versata, così quello che viene più o meno fedelmente registrato dai nostri sensi assume inevitabilmente la forma della nostra peculiare soggettività.


Il senso in assoluto più utilizzato (e forse sopravvalutato) nella nostra cultura occidentale è sicuramente la vista. Avere una vision, speculare, avere occhio per le cose, vederci chiaro nelle situazione, guardare dentro a se stessi … Dio stesso è raffigurato spesso come un grande occhio (accompagnato dal minaccioso “Dio ti vede!”), neanche fosse la divinità dei Ciclopi!

Segue in classifica l’udito, che con tutto il parlare che facciamo è un senso socialmente indispensabile, tanto che chiudono i fornai e aprono i centri Amplifon: non riuscire a sentire le parole e perdersi parte delle conversazioni è vissuta giustamente come una vera e propria menomazione relazionale. Anche mia nonna è diventata sorda presto, ma ho sempre avuto l’impressione che in certe situazioni le andasse meglio così. Era un’altra generazione.


Vista e udito. Potremmo fermarci qui secondo qualcuno, perchè è tutto quello che sembra servire oggi nella migrazione di massa alle relazioni digitali, nelle quali tutti ci siamo riversati, chi obtorto collo, chi pieno di sollievo o addirittura di entusiasmo. Ma mancano all’appello gli altri tre sensi, e sono quelli che hanno bisogno ancora di misurarsi con il mondo fisico.


Il gusto a dire il vero è ancora di moda, fondamentalmente grazie a MasterChef e a Benedetta Rossi, che con i suoi tutorial di cucina ci ha salvato tutti durante il primo lockdown, quello vero, quello quasi bello. Assaggiamo, degustiamo, assaporiamo. Siamo diventati raffinati e riusciamo a distinguere cinquanta sfumature di gusto e una mezza dozzina di retrogusti in un piatto di lenticchie. Anche questo senso è diventato una sorta di terreno di rifugio, così almeno sembrano indicare i dati Nielsen sulla crescita dei consumi di comfort food e come impietosamente confermano le bilance di casa.


Nonostante in passato godesse di tutt’altro rispetto, l’olfatto ha ormai un ruolo quasi ancillare al gusto e si contende la parte bassa del ranking con il tatto, che pur coinvolge il nostro organo in assoluto più esteso, la pelle. 

Ma c’è una cosa che di questi tempi rischiamo di dimenticare: olfatto e tatto hanno tanto a che fare con la “chimica” della relazione. Registrano in maniera anche inconsapevole una grande quantità di informazioni su come stiamo noi nei confronti degli altri e di come gli altri ci “sentono” nella relazione. Grazie a loro percepiamo affinità, segnali di allarme subconsci, informazioni qualitative di enorme importanza che ci aiutano a stabilire la corretta risposta da elaborare alla situazione specifica. Ci possiamo fidare? Siamo davanti a un essere amichevole od ostile? La persona a cui stringiamo la mano ci dà vibrazioni positive? Il suo odore, anche se non lo percepiamo, ci rassicura o ci mette a disagio? Quando i nostri corpi entrano in contatto, anche per pochi istanti, che reazioni si scatenano in noi e quanto queste influenzano l’esito della nostra interazione?


In decine di migliaia di anni gli esseri umani hanno sviluppato un complesso di rituali di incontro con i loro simili, che prevedono quasi sempre la vicinanza e il contatto, l’annusarsi e il tastarsi reciprocamente. È di questi gesti antichi che ora siamo improvvisamente rimasti orfani. Ci incontriamo per strada e in azienda, vorremmo avvicinarci, stringere le mani, dare pacche sulle spalle e abbracciarci. Sì, quel gesto stupendo nel quale mettiamo tutto il nostro corpo a contatto con l’altro e stringiamo, anche forte. E desideriamo anche baciarci, respirando involontariamente l’essenza dell’altro. 

Vorremmo ma non possiamo. Vorremmo ma non dobbiamo.

Orfani del contatto, ci muoviamo disorientati e timorosi, inventando surrogati che non convincono nessuno.

Quest’anno saremo soli nelle nostre case, lontani dagli amici e perfino dai parenti, nel giorno in cui eravamo abituati a stringerci attorno alle persone più care. 

Soli i nostri genitori anziani, che nel conto alla rovescia degli anni perdono un Natale prezioso.


Cosa è concesso agli orfani se non di piangere? E allora avviliamoci un po’: in un tempo nel quale essere positivi non è una bella cosa, abbiamo tutto il diritto di deprimerci!


E poi -come succede quando si perde l’uso di una facoltà- svilupperemo qualche nuova capacità che gradualmente ci aiuterà a colmare l’handicap: forse una ipersensibilità empatica, capace di cogliere sfumature nella voce e nel viso, anche se appiattite nel monitor di un computer. O forse diventeremo finalmente capaci di ascoltare con totale attenzione e concentrazione chi ci sta parlando, se non altro per superare i disturbi delle linee sovraccariche e il balbettìo dei segnali deboli di rete.

Quello che davvero non so, è se saremo capaci di superare la tristezza degli armadi e degli sgabuzzini che fanno da sfondo alle nostre videochiamate quotidiane!


Buon Natale, con un “tocco” di magia!


venerdì 10 aprile 2020

DIGIUNO E ASTINENZA - Pasqua 2020

Pasqua 2020 - Pensieri di un filosofo non praticante


In queste settimane di domicilio coatto tutti noi abbiamo detto, letto e scritto più del necessario.
I social sono pieni di contenuti: dati, analisi, riflessioni, stimoli, polemiche, commenti, immagini, filmati, citazioni, appelli, sentenze e tanta tanta segatura.
Io ho già i sintomi di una indigestione.
Mi sono chiesto: cosa scrivo a fare in questa Pasqua? Perché alzare ancora di più il volume di questo rumore di fondo collettivo e un po’ isterico? 
Mi sa che avremmo più bisogno di silenzio che di parole.

Così, di Venerdì Santo, mi è tornata in mente l’astinenza. 

Non il digiuno, ma la sua versione più sofisticata.
Il digiuno è assenza totale, privazione assoluta. Sospensione del nutrimento.
L’astinenza è selettiva, di solito rivolta a qualcosa di non essenziale ma piacevole. È una rinuncia volontaria, ispirata alla sobrietà e all’essenzialità.
L’etimologia richiama la distanza, il “tenersi lontano” a scopo di purificazione, penitenza o per ragioni igieniche: è una rinuncia che rafforza e difende.
Pensavo, i 40 giorni nel deserto della Quaresima che precede la Pasqua coincidono pressappoco con il tempo di questo nostro isolamento e distanziamento sociale. Solo che il nostro è stato tutt’altro che un deserto di parole, presenze virtuali, immagini e suoni. Ci siamo tutti iniettati una overdose di webinar e video conference, vittime e carnefici della stessa frenesia e dello stesso horror vacui.

E allora, benvenuta astinenza.

Forse è questa la stanza vuota dove stare in attesa della Pasqua. Sperimentare la rinuncia ad alimentarci di contenuti, sapendo che l’astinenza avrà come effetto collaterale la riscoperta del valore di ciò di cui si fa temporaneamente a meno.
Il sabato prima della Pasqua è il giorno del silenzio. Potremmo mettere a tacere tutti i social e lasciare aperto solo il telefono -ve lo ricordate?- quello che serve per chiamare i nostri genitori anziani o per farci chiamare dagli amici veri.

Non so voi, ma io ho solo voglia di respirare aria, a pieni polmoni, e ringraziare di poterlo fare in ogni istante e da solo, senza l’aiuto di una macchina.

Buona Pasqua a tutti.



“standing calmly at the crossroads 
no desire to run 
there's no hurry any more 
when all is said and done”
ABBA