venerdì 26 agosto 2016

Ho sognato il terremoto

Il terremoto me lo sono sognato un mese fa.

Non era premonizione del disastro in centro Italia, semplicemente l'inconscio anticipava la demolizione interiore di questi giorni.
Vacanze strane, piene di ipotesi sbagliate e mal organizzate. Vicende affettive che domandano finalmente di essere lasciate andare in pace. Impegno lavorativo eccessivo, i cui risultati sono per lo più risucchiati da tasse e da una previdenza che mi garantirà se tutto va bene la pura sopravvivenza a 70 anni o passa. La sensazione forte di aver sbagliato tutto e di dover quindi ripartire.
Quest'ultimo sentimento, contrariamente all'apparenza, è tutt'altro che negativo. Lo intendo infatti alla maniera di Igor Sibaldi come il segno e il messaggio che lo spirito ci dà circa la possibilità -prima ancora che la necessità- di essere una persona nuova e diversa a partire da questo esatto istante. La maledizione è l'identità, non la sua destrutturazione e ricostruzione. Purché nel ricostruire si impari la lezione del terremoto.

E allora sono qui e me ne sto a guardare sereno le macerie, per capire ancora una volta cosa buttare e cosa tenere (ci son già passato, so come si fa ed è un bel vantaggio).
Iniziamo da ciò che voglio tenere. Sono le fondamenta: meglio fare attenzione.
La vita innanzitutto, con la banalità apparente dell'alzarsi ogni mattina. Il sentimento della gratitudine, la capacità di godere di ogni piccola cosa. Ora ad esempio sono seduto in una panchina, all'ombra di conifere altissime, e una brezza leggera mi carezza la pelle scoperta e i piedi scalzi. Capite cosa intendo per gratitudine? Ho camminato fino a qua e quel fastidioso dolore all'anca che ha reso più difficile correre e camminare negli ultimi mesi sembra essersi attenuato. Capite cosa intendo per godere ogni istante? La chiamano Mindufullness ma è per certi versi anche il Carpe Diem di Orazio, l'attimo fuggente o la saggezza che nei salmi biblici fa imparare a contare i giorni.

Andiamo avanti con la cernita. Sara e Anna. Le figlie. Altro centro di gravità permanente: mi hanno fatto tornare da infiniti altrove infinite volte.
Poi c'è il grande progetto in ambito professionale, la sfida di creare un business che funziona e al tempo stesso rispetta, valorizza e fa crescere le persone che vi partecipano, a qualunque livello e titolo. Questo è un punto insidioso, costantemente minacciato dalla tirannia degli obiettivi minimi per far fronte agli impegni verso lo Stato. È come voler salvaguardare un ecosistema rigoglioso e dagli equilibri delicati all'interno di una metropoli intossicata.

E poi? Pochissime persone. Pochissime relazioni davvero vitali, necessarie come l'aria che respiro. Sono quelle nelle quali posso abbassare la guardia e appoggiare il capo senza timore. Sono pochissime. E questo un po' mi rammarica.

E poi?
La certezza interiore di avere un compito e una missione nella vita, la difficoltà a capire qual è, il terrore di mancarla, perdendomi nel nulla in cui sono anche adesso.

C'è anche un grande bisogno di perdono. Nel senso di perdonare io e liberarmi di due tre rancori, legati a ferite ormai passate, e quindi inutili e corrosivi. In un paio di situazioni mi sono sentito vittima, oggetto di scelte ingiuste che mi hanno costretto a sputare sangue per restare in piedi. Perdonare, lasciare andare e fare strade nuove, carico solo di un bagaglio invisibile di esperienza fatta di errori ripetuti e scelte, quelle sì, anche coraggiose. O forse devo lasciare a terra anche quel bagaglio, per essere libero di sbagliare di nuovo magari in modo diverso.

Le macerie fumano ancora polvere. Troppo presto per ricostruire: qualche parete potrebbe ancora crollare.