Sarsina è un piccolo centro romagnolo da molti conosciuto solo come uscita secondaria della E45 Orte-Ravenna. I più dotti, o quelli che vi sono capitati per caso cercando un posto dove mangiare diverso dall’autogrill (e avete capito che io appartengo alla seconda categoria, in barba ai miei studi classici), sanno che la cittadina ha dato i natali al grande commediografo latino Tito Maccio Plauto.
Tranquilli, non voglio parlare della commedia antica, se non per un singolo aspetto che peraltro si esalta proprio nella commedia plautina: l’uso delle maschere da parte degli attori.
Nel teatro antico (già presso i Greci) la maschera aveva una specifica funzione. Anzi, più d’una a onor del vero. Semplificando, serviva sia a caratterizzare e rendere riconoscibili i personaggi sia -secondariamente- ad amplificare la voce degli attori (dal momento che i teatri erano normalmente all’aperto e l’elettricità non era ancora stata scoperta). Praticamente, poiché nella commedia antica i “caratteri” erano relativamente pochi e ricorrenti, uno vedeva entrare in scena un attore con una determinata maschera e sapeva già attribuirvi un ruolo o “personaggio”; questo semplificava molto le cose in un tempo in cui l’analfabetismo era la norma e comunque sarebbe stato difficile far uscire dei titoli in sovrimpressione.
L’abbinamento del termine “persona” alle maschere usate nei teatri (se avete voglia di saperne di più, sul web trovate tutto e il contrario di tutto sul tema) mi ha sempre fatto pensare. Un po’ perché la nostra nozione di “persona” è influenzata dal pensiero cristiano ed è quindi ricca di connotazioni divine (trinità) o comunque positive, un po’ perché -per ragioni analoghe- abbiamo interiorizzato la contrapposizione tra “persona” e “individuo”, attribuendo alla prima una valenza di maggiore autenticità. Siamo figli del nostro tempo e quindi va bene così, ma come sempre può essere utile rimestare un po’ i vecchi significati e le etimologie annesse, ché se ne ricava sempre qualcosa di utile.
Dando per buono questo legame del termine “persona” con la maschera teatrale, va da sé che il primo termine si trascina dietro anche i rimandi simbolici dell’altro. E la maschera, signori e signore, di valenze simboliche ne ha a bizzeffe. Innanzitutto ha sempre avuto a che fare con l’oscuro, con il buio che vela e cela gli oggetti alla vista. E dalla notte alla morte -si sa- il passo è breve, per cui in molte civiltà la maschera è legata ai riti funebri e alla sepoltura (chi non ricorda la maschera di Agamennone nei libri di storia? O i volti dei faraoni nei sarcofaghi egizi?).
Ma oltre a questi riferimenti oscuri (o forse proprio grazie ad essi), la maschera ha sempre raffigurato anche la manifestazione delle divinità e degli spiriti; quindi l’uomo che indossa la maschera “personifica” il volto potente e tremendo della divinità e ne riceve poteri e attributi. Così come la maschera della divinità o degli spiriti maligni, pur inerme e deposta, conserva un suo sinistro potere per il pensiero superstizioso o proto-religioso.
Ma se anche torniamo al teatro antico -rilassandoci un po’ dopo queste visioni vagamente dark- potremmo immaginare che lo stesso attore indossasse nel corso dello spettacolo più maschere e quindi “im-personasse” più soggetti e -si noti bene- sia femminili che maschili (dal momento che gli attori erano sempre e solo maschi, che si esibivano in penosi o virtuosi falsetti nelle parti da donna). E poi, alla fine dello spettacolo, probabilmente gli attori si toglievano finalmente le maschere per raccogliere gli applausi del pubblico, rivelando magari i loro volti trasformati... in una maschera di sudore!
Se ora -pur senza saper né leggere né scrivere, in quanto filosofi non praticanti- proviamo semplicemente a mettere insieme tutte le valenze della maschera-persona che abbiamo appena citato, una cosa appare evidente: pur essendo una cosa “esteriore” e “superficiale”, la maschera da un lato nasconde e dall’altro rivela qualcosa di più profondo, potente, autentico e inquietante. E’ un velo che però ha già in sé il mistero di quello che -per altri versi- cerca di celare: è come se l’essenza non potesse darsi e rendersi visibile se non nella forma dell’apparenza [sì, mi sono lasciato prendere, giuro che non lo faccio più].
Cerco di spiegarmi meglio. Ognuno di noi ha più maschere, più ruoli e -con buona pace degli psicoterapeuti- più personalità. Ne cambiamo una decina al giorno e quando ci troviamo con persone che appartengono a teatri diversi della nostra vita siamo in difficoltà, perché ci accorgiamo che dovremmo indossare contemporaneamente più maschere.
Un po’ alla volta però, crescendo e maturando, impariamo a semplificare le nostre maschere, a raggrupparle prima e poi ad unificarle. Finché a forza di adattarla e farla nostra, la maschera sarà finalmente espressione luminosa di quello che siamo dentro e che in nessun modo potrebbe manifestarsi, se non proprio attraverso la “personalità” che abbiamo così faticosamente plasmato.
Eppoi lo ha detto Nietzsche, mica io: “tutto ciò che è profondo ama la maschera”.
Quanto a noi, la prossima volta, prima di dire “ti conosco mascherina” ci penseremo un po’ su.
